Voci da mondi diversi. Medio Oriente
INTERVISTA A ABRAHAM B. YEHOSHUA, autore de “Il responsabile delle
risorse umane”
Muore una donna, in un attacco
kamikaze al mercato nel cuore di Gerusalemme. Un giornalista- sempre chiamato
“il serpente” nel romanzo “Il responsabile delle risorse umane” di Abraham
Yehoshua (Ed. Einaudi, pagg. 258, Euro 17,00)- vuol fare scoppiare uno scandalo
perché nessuno si è accorto dell’assenza della donna nel panificio presso cui
lavora. Il responsabile delle risorse umane del panificio riceve l’incarico di
rimediare a questa indifferenza, scortando la bara nel lontano paese da cui la
donna proviene, un viaggio di espiazione che termina in una rinascita, un
ritornare alla vita dagli inferi dell’indifferenza e dell’insensibilità- come
simboleggia la scultura di Proserpina del Bernini sulla copertina del libro.
Stilos ha incontrato a Milano lo scrittore israeliano.
L’unico personaggio del libro che ha un nome è la donna che viene
uccisa da un kamikaze: è un omaggio a tutti gli innocenti che muoiono negli
attacchi terroristici?
No, non esattamente,
piuttosto è un tentativo, un esperimento per aprire uno spiraglio
nell’indifferenza, nella routine con cui la società israeliana e anche quella
palestinese accolgono la morte. Tutti si sono abituati alla morte, da una parte
e dall’altra, è diventata una consuetudine, è stupefacente la rapidità con cui
la gente torna alla vita normale dopo un evento drammatico come un attentato
che ha causato dei morti. E’ così per noi ed è così per i palestinesi che
mandano con facilità i bambini in battaglia e difendono i loro kamikaze…Questa
è una storia che ho inventato, e ho scelto di prendere come oggetto la morte
più anonima, quella della lavoratrice straniera che muore senza essere
identificata, senza parenti che ne reclamino il corpo, e io cerco di provocare
una rivoluzione nel sentimento riguardo a questa morte marginale e di renderla
così importante da trasformare quel sentimento in amore. La mia è una protesta
alla routine della morte, alla facilità con cui tutti accettiamo la morte- me
compreso.
Il romanzo ha un sottotitolo, “Passione in tre atti”: perché
“passione”?
Mentre scrivevo il
romanzo ho avuto delle incertezze nel definire a che genere appartenesse: non è
un romanzo, non è una novella. E’ una “passione”, ecco, volevo fare una
passione: è un viaggio della sofferenza e l’uomo che intraprende questo viaggio
lo fa come una missione. Infatti il titolo originale è “La missione del
responsabile delle risorse umane”. La missione, il compito che ha avuto, è di
portare in patria il corpo della donna per salvare il buon nome del padrone
della fabbrica. La missione è un viaggio nel suo cuore: è un uomo alienato da
se stesso, è divorziato, è solo, non fa neppure caso alla bellezza di una donna,
non si ricorda del suo volto e neppure di avere parlato con lei. E’ come morto
e la storia è la storia della risurrezione di un morto operata da parte di un
morto.
E perché la passione?
Perché questa parola si
addice alla donna morta, una donna cristiana che è venuta a Gerusalemme perché
crede in Gerusalemme, voleva attaccarsi a Gerusalemme. E la Gerusalemme di oggi ha
perso il suo fascino, è diventata un luogo di fondamentalismi religiosi e di
povertà. Questa donna crede in maniera innocente nel potere religioso di
Gerusalemme e la storia della sua morte, del viaggio della sua bara che viene
portata via e poi forse riportata indietro nella città del suo sogno- ecco, mi
pare un sacrificio simile a una passione di tipo cristiano. Quando ero giovane
e leggevo “Delitto e castigo”, non capivo perché si dica di Raskolnikov, quando
si inginocchia in una strada di San Pietroburgo, “questo ragazzo va a
Gerusalemme”: che senso aveva? Poi ho capito ed ecco perché ho scritto di una
donna cristiana a Gerusalemme: perché Gerusalemme appartiene a tutto il mondo e
a nessuno. In un momento deprimente in cui Gerusalemme è un campo di battaglia,
l’unica cosa che può farci uscire da questo contrasto è che intervenga una
terza parte cristiana e Gerusalemme diventi una città di tutti. La donna
cristiana è un’allegoria della necessità di sollevare Gerusalemme da questo
conflitto degradante.
Una morte inosservata, una morte che passa sotto silenzio: ci si può
abituare alla morte? Questa insensibilità emotiva è un’autodifesa? O egoismo?
E’ un meccanismo di
difesa, ci si difende dicendo, “non so come affrontarlo, come affrontare un
autobus che salta in aria”. Si parla di destino, di fatalismo. In realtà ci
siamo abituati alla facilità con cui ci uccidiamo. Diciamo, “che cosa ci
possiamo fare?” E’ il fatalismo che entra nella società. Ma una volta la
società israeliana non era così. Mi ricordo che venti, venticinque anni fa, la
morte di un soldato era una tragedia per tutta la nazione. Ma per parlare di
questa indifferenza sono partito dall’alienazione e dall’aspetto burocratico di
questa morte per portare il libro ad un altro livello di emozione.
Il personaggio principale è chiamato di continuo solamente “il
responsabile delle risorse umane”: c’è ironia nella reiterazione di questa
denominazione?
Quando ho iniziato a scrivere, ho preso
subito la decisione che avrei dato un nome solo alla donna perché deve essere
identificata. Tutti gli altri personaggi entrano nella storia per la loro
funzione, non ho dato il nome a nessun altro per non promettere al lettore che
gli avrei dato un personaggio completo, con sfumature psicologiche. Così tutti
gli altri entrano nella storia per la loro posizione, per il lavoro che fanno,
e poi ho cercato di farli muovere attraverso le motivazioni con cui entrano
nella storia fino alla fine. Non potevo dare un nome al rappresentante delle
risorse umane a metà del libro, volevo sottolineare la posizione burocratica in
cui era ingarbugliato. Doveva restare anonimo. Una volta il titolo per quella
carica era “direttore del personale”, “man power” in inglese. Poi c’è stata una
svolta verso il politicamente corretto: risorse umane sembra avere un
significato più ampio, più gentile, più ambizioso. Parliamo dell’umanità,
dunque.
L’aggettivo “tartaro” che è ripetuto spesso per sottolineare la
peculiarità dell’aspetto della donna e del figlio di questa. Perché proprio
questa peculiarità?
Devo dire qual è la
fonte dell’idea per questo aggettivo: è Thomas Mann, “La montagna incantata”,
dove Madame Chauchat ha quegli zigomi alti che la rendono così attraente.
Sentivo la capacità erotica di questa figura femminile, mi piaceva questa
particolarità così tanto non-ebraica, così lontana dalle caratteristiche somatiche
ebraiche. Questo aggettivo, “tartaro”, accentua la bellezza diversa, esotica,
della donna, e lui vede nel figlio la bellezza della madre e si innamora di una donna che è scomparsa.
Innamorarsi di una donna morta era per me una sfida su che cosa può fare
l’amore, a quali vette l’amore può innalzarsi.
Il tema del viaggio che ritorna in tutti i suoi romanzi, viaggio di
scoperta di sé, in questo caso anche viaggio di espiazione. Qui il viaggio è
verso un paese molto lontano, un paese freddo: è un simbolo della freddezza
spirituale e di quanto ci siamo allontanati dalla compassione?
Sì, è il viaggio più
lungo di tutti i miei libri, fino alla fine di un mondo sconosciuto. E’ un
viaggio metafisico, in un posto che il personaggio non sa dove sia. E’ un
viaggio in cui lui cambia. All’inizio era risentito di questo incarico, diceva,
“non sono affari miei, nessuno leggerà mai questo articolo, non mi interessa”,
e poi invece diventa interamente responsabile e il freddo esterno corrisponde
ad un progressivo scongelamento del suo cuore.
Per la prima volta c’è anche la presenza del coro in questo romanzo.
E’ vero, il coro è
qualcosa che non ho mai usato. E siccome la storia era vista dalla mente del
responsabile delle risorse umane, volevo allargare questo punto di vista ma lui
restava la figura principale. Ho scelto allora una specie di coro, si adattava
al genere “passione” del romanzo: sono persone diverse che parlano, operai,
soldati, bambine, camerieri…, e accompagnano il viaggio dalla parte esterna e
cercano di capirlo a modo loro, offrendo commenti e interpretazioni.
C’è stata una conseguenza di questo stato di guerra continuo nella
letteratura israeliana, per la creatività degli scrittori?
Se c’è stata una
conseguenza, questa è risultata in un tipo di letteratura di diversivo, di fuga,
negli ultimi quattro anni. Le attività culturali proseguono, ci sono balli,
rappresentazioni di opere, nessuno vuole affrontare la realtà per mancanza di
strumenti artistici per rappresentarla. Fatta eccezione per il romanzo di Amos
Oz, “Una storia di amore e di tenebra”, in genere c’è un tipo di letteratura di
evasione dalla realtà. Per quello che mi riguarda, io mi sento responsabile di
quello che succede e penso di dover usare i mezzi artistici che ho: questa è la
mia maniera di trattare la realtà.
Questo è il suo libro più triste, che rappresenta una Gerusalemme
“tormentata e ferita”. E’ di ieri la notizia che Sharon farà smantellare gli
insediamenti a Gaza: che cosa ne pensa? Porterà la pace?
Io non credo in Dio, ma
da ieri credo nella giustizia divina. Sharon che era ostile a ogni compromesso,
che era il responsabile degli insediamenti nei territori occupati, che si era
opposto a Rabin- e ieri era il nono anniversario della morte di Rabin- adesso
toglie gli insediamenti: questa è la giustizia divina, deve affrontare
l’estrema destra e i coloni che lo considerano un traditore. Da noi si dice che
“se sei un uomo giusto, il tuo lavoro lo fanno gli altri”: Sharon adesso deve
lavorare con la sinistra, sta facendo la politica della sinistra. Questa
decisione è la prova che si può correggere uno sbaglio. Il mio libro più
triste: “La sposa liberata”, il mio romanzo precedente, è stato scritto in
tempi di ottimismo, in tempi di rapporti liberi tra israeliani e palestinesi.
Questo è stato scritto in giorni bui, in tempi pessimisti: non è un libro
dolce, il personaggio è un morto che ha un cuore duro come una pietra. Se
volete un libro dolce, non comprate questo libro.
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