Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
INTERVISTA AD AMITAV GHOSH, autore di “Circostanze incendiarie”
Copre un arco di vent’anni la raccolta di
saggi dello scrittore indiano Amitav Ghosh, “Circostanze incendiarie” (Ed. Neri
Pozza, trad. Anna Nadotti, pagg. 365, Euro 17,00). Vent’anni di circostanze
incendiarie, per l’appunto, su cui Amitav Ghosh, straordinario osservatore del
nostro tempo, riflette con pacatezza, perché - come dice in un saggio e ripete
nella prefazione- in tempi così agitati “le parole possono costare delle vite,
è dunque solo giusto che quanti lavorano con le parole prestino scrupolosa
attenzione a ciò che dicono.”
Il libro si apre con uno scritto del 2005,
con la visita dello scrittore alle isole Andamane e Nicobare subito dopo lo
tsunami- una tragedia stranamente prevista nell’ultimo romanzo di Ghosh, “Il
paese delle maree”- e termina con un saggio del 1986 in cui un giovane
Ghosh si ritrova a vantarsi con un imam egiziano del fatto che l’India abbia
armi, carri armati e bombe, come prova del progresso del suo paese. La voce
dello scrittore è indubbiamente cambiata nel corso del tempo, resta uguale lo
sguardo attento che non è quello del giornalista di cronaca, ma dell’osservatore
che si fissa sul particolare e riporta gli effetti che la crisi del momento ha
sulla gente normale. Così l’11 settembre 2001 è visto attraverso le reazioni
dei suoi figli bambini, come il 31 ottobre 1984- giorno dell’assassinio di
Indira Gandhi- è rivissuto nei momenti di paura che la folla inferocita possa
scoprire l’ospitalità offerta dagli amici di Ghosh agli anziani vicini Sikh, e
le conseguenze dei test nucleari sono riportate dalle voci dolenti degli
abitanti di Pokhran, nel Rajasthan occidentale.
Amitav Ghosh è un viaggiatore colto che, in
una visita in Kashmir, parla con i soldati impegnati nella difesa senza senso
della zona inabitata al confine tra India e Pakistan, intervista in Birmania il
premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e in Cambogia la cognata di Pol Pot, scopre,
tornando in Egitto un decennio dopo un suo soggiorno di ricerca, quanto sia
cambiata la vita dopo la guerra con l’Iraq- paradossalmente in meglio, perché i
giovani egiziani trovano lavoro a Baghdad.
Alcuni dei saggi sono delle escursioni nel
campo della letteratura- uno è un omaggio al poeta Agha Shahid Ali, un altro
esamina le motivazioni per cui il commercio del petrolio non abbia dato origine
ad un genere narrativo che Ghosh denomina “petrofiction”, così come è successo,
invece, per il commercio delle spezie e della seta, e uno, infine, osserva la
reazioni della gente in strada al Cairo quando giunge la notizia che Mahfouz ha
vinto il premio Nobel.
C’è un filo unificatore che scorre in tutto
il libro e dà una certa unità ai saggi di Ghosh, ed è la domanda di ordine
etico che si pone lo scrittore: come parlare di “circostanze incendiarie”, come
scrivere delle turbolenze del nostro tempo, degli orrori che si susseguono e si
incalzano, senza trasformarli in spettacolo, diventando complici di quanto
accade? La risposta è che chi scrive deve rendere conto non solo della violenza
ma anche dell’opposizione consapevole e civile a questa violenza, di modo che che
accanto alla disperazione ci sia una luce di ottimismo e di speranza. Stilos ha
intervistato Amitav Ghosh a Torino, durante la Fiera del Libro.
Il primo saggio è stato scritto poco dopo lo tsunami: è stato
nuovamente, di recente, sul posto? È tornata alla normalità la vita?
Non sono stato di recente
nelle Andamane, ma ho degli amici che sono andati là e mi hanno detto che la
vita è normale e anormale nello
stesso tempo. Gli aiuti sono arrivati sulle isole e la vita delle persone è
cambiata. Un esempio: il governo ha ricostruito le case, ma non sono secondo il
modello che si è sempre visto in quel luogo e quindi le isole stesse hanno
acquistato un aspetto diverso.
Possiamo fare un paragone tra la reazione dei due governi di fronte a
due catastrofi naturali, in India e a New Orleans, dopo l’uragano Katrina?
C’è stata una grande
differenza, sia nella maniera in cui i governi hanno risposto all’emergenza,
sia nella reazione della popolazione. La risposta in India è stata di gran
lunga migliore, anche se si tratta di un paese sottosviluppato, le cose vanno a
rilento e il luogo era un posto isolato. Il governo in India ha agito
immediatamente. Negli Stati Uniti si sapeva che sarebbe arrivato l’uragano
Katrina ed è stupefacente che non abbiano fatto niente, che non si siano prese
delle misure preventive. In India, inoltre, non c’è stata l’ondata di saccheggi
e i disordini che si sono visti a New Orleans e i primi soccorsi sono venuti
proprio dalla gente, prima ancora di quelli inviati dal governo. C’è stata
maggiore umanità. Quando sono andato io, c’erano almeno una decina di campi di
rifugio organizzati da gruppi locali che distribuivano cibo, in attesa che
arrivassero gli aiuti ufficiali. In America è successo che il governo ha
proibito le iniziative di aiuto personali.
In “Tentazioni imperiali” lei sottolinea la differenza fra il nuovo
imperialismo americano e il vecchio imperialismo britannico, e parla della
mancanza di “persuasione” da parte degli americani. A che cosa è dovuta questa
mancanza di persuasione, l’incapacità di ricostruire o di lasciare qualcosa di
duraturo? Sono i tempi che sono cambiati? O si tratta di una cultura diversa?
C’era qualcosa di positivo in quello che Kipling chiamava “il fardello
dell’uomo bianco?”
No, perché
l’imperialismo fu una catastrofe specialmente per chi lo ha vissuto, e non
solamente per gli abitanti dei paesi colonizzati ma anche per i paesi che lo
hanno imposto. E’ stata una catastrofe in forma di auto-inganno: i paesi
imperialisti hanno cercato di persuadersi di essere necessari per il benessere
degli altri. E questo era proprio l’opposto della verità. Nel saggio che ho
scritto volevo evidenziare non solo che l’America è incapace di persuadere ma
che ci sono altri strumenti di persuasione altrettanto potenti, Al-Jazeera, per
esempio. In passato la Gran Bretagna
controllava i media, ora un controllo simile non è più possibile. Un tempo era
facile controllare l’informazione, oggi è escluso che si possa fare. Ogni volta
che l’America fa una certa propaganda, questa è subito seguita da una
contro-propaganda. L’effetto finale è che la reinvenzione dell’imperialismo
impara la lezione: non può funzionare. Ho scritto il saggio prima della guerra
in Iraq ed è strano verificare che quello che ho detto si è realizzato: stiamo
assistendo alla follia del potere.
Quando lei parla delle “mappe perdute della nostalgia”, vuole dire che
non abbiamo strumenti per capire che cosa succederà perché è troppo lontano da
qualunque nostra esperienza? Saranno capaci i nostri figli di tracciare delle
nuove mappe per se stessi?
Il ‘900 è basato sull’idea della creazione
dello stato perfetto, l’idealismo si fonda sul creare un mondo utopico. I
nostri figli impareranno che l’idealismo deve essere basato su dei mezzi e non
su dei fini, piuttosto che tracciare delle mappe, tracceranno dei percorsi. Le
mappe suggeriscono una direzionalità, un intento di andare da qualche parte, i
nostri figli invece disegneranno delle cartine del loro itinerario.
La questione del nucleare, l’argomento del saggio “Conto alla
rovescia”, è sempre attuale, come abbiamo visto di recente con l’Iran. Nel
saggio lei è chiaramente contro le armi nucleari: a nessuno Stato, quindi,
dovrebbe essere permesso di avere armi nucleari, neppure agli Stati Uniti ?
Proprio così, anche se penso si debba
distinguere tra energia nucleare e armi nucleari: ogni paese deve assolutamente
eliminare le armi nucleari, mentre penso si debba mantenere un atteggiamento
pragmatico nei confronti dell’energia nucleare. Uno dei primi vantaggi che
viene in mente è che l’energia nucleare può essere certamente meno inquinante.
Si è parlato molto di fondamentalismo dopo l’11 di settembre e tuttavia
il suo saggio ci ricorda che ci sono sempre state esplosioni di
fondamentalismo, la storia dell’India ne è piena, ma anche quella dell’Europa.
Sembra paradossale che tutta questa esplosione di violenza abbia a che fare con
la religione, ma forse, invece, non ha proprio nulla a che fare con la
religione.
E’ proprio così, il fondamentalismo non ha
niente a che fare con la religione, è fondamentalmente un problema politico.
Sono i problemi politici che vengono trattati in un linguaggio religioso. Se si
presta attenzione a quello che dicono, ci si accorge che i fondamentalisti non
hanno niente a che fare con i problemi spirituali.
Leggendo i saggi sul premio Nobel Aung San Suu Kyi e quello su Indira
Gandhi, ho pensato che, per essere un continente con una forte discriminazione
nei confronti delle donne, c’è un numero piuttosto alto di donne di rilievo che
hanno o hanno avuto un ruolo importante in politica. La loro forza o il loro
carisma è in qualche modo inversamente connesso a questa discriminazione?
Diciamo subito che quello che il mondo
occidentale pensa sia discriminazione non è proprio così: le donne hanno un
ruolo importante nella famiglia e hanno un ruolo importante anche nella
politica. E’ vero che la nascita di una bambina è accolta meno bene di quella
di un maschietto, ed è vero che bisogna dare tempo alla bambina di diventare
adulta, ma poi le madri sono molto importanti e vengono tenute da conto nella
cultura indiana. Ed è comunque vera l’osservazione che “abbiamo” un alto numero
di personalità femminili di rilievo.
la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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