Voci da mondi diversi. Area germanica
prima guerra mondiale
fresco di lettura
Andreas Latzko, “Uomini in guerra”
Ed. Keller, trad. Melissa
Maggioni, pagg. 176, Euro 12,33
Titolo originale: Menschen im Krieg
Gli ripugnava recitare in maniera monotona le solite frasi patriottiche
che esigevano di finire sulle labbra come fossero dettate dall’alto! Da mesi
portava con sé la caparbia decisione di non pronunciare la prescritta “dulce est pro patria mori”, a nessun costo. Nulla gli era più
sgradevole di questo strimpellare con il sacrificio altrui, di usare questi
trucchi da ciarlatano: davanti proclamare la morte e dietro apprestarsi ad
ammazzare.
Andreas Latzko, ebreo ungherese, nato a
Budapest nel 1876. Non era una recluta giovane quando fu mandato, all’inizio
della Grande Guerra, a combattere sul fronte dell’Isonzo. Si ammalò di malaria,
ma fu ricoverato in ospedale solo quando subì un grave trauma bellico durante
un pesante attacco di artiglieria vicino a Gorizia. Alla fine del 1916, ricoverato
nel sanatorio svizzero di Davos, scrisse i sei capitoli di “Uomini in guerra”-
sei flash sulla guerra che aveva vissuto in prima persona, sei momenti diversi,
di disperazione, di orrore, di cordoglio, di protesta, di pietà. Nel 1933 il
regime di Hitler ordinò che i suoi libri venissero dati alle fiamme.
Un ufficiale dell’esercito austro-ungarico
sul fronte dell’Isonzo. Pensiamo al nostro Emilio Lussu sull’altipiano di
Asiago. Potevano, ipoteticamente, trovarsi a combattere l’uno di fronte
all’altro. Sarebbe potuto essere Lussu l’italiano ferito difeso dal capitano
Marschner nella seconda storia del libro di Latzko, una scena che si accosta a
quella in cui Emilio Lussu si arresta, incapace di uccidere a sangue freddo un
giovane e biondo austriaco. Sarebbero potuti diventare amici, nonostante la
differenza d’età, Latzko e Lussu. Uguale è il loro atteggiamento davanti alla
guerra che appare insensata, uno spreco di vite- “era lui il pazzo o erano gli
altri?”, si chiede Marschner. Uguali le amare considerazioni sugli ufficiali
superiori che parlano di eroismo e patriottismo mandando i soldati semplici a
farsi uccidere. Uguale il disprezzo per i profittatori della guerra.
Una tristezza infinita domina i sei ‘capitoli’ di “Uomini in guerra”. Nel
primo c’è un uomo distrutto nello spirito e nell’anima, ricoverato in ospedale.
Non riesce a gioire neppure della presenza della moglie accanto a lui. Anzi, la
moglie diventa l’emblema di tutte le donne- madri, mogli, fidanzate- che
volevano vedere degli eroi nei loro uomini, che li hanno spinti a partire per
la guerra, che li hanno lasciati partire invece di trattenerli a casa. Lo
stesso confronto, tra chi ha vissuto la guerra e chi non potrà mai capirla,
riappare nell’ultima storia, “Ritorno a casa”: qui c’è un uomo sfigurato, al
punto che nessuno lo riconosce quando ritorna al paese. La fidanzata si ritrae
inorridita. Accanto a lei il signore presso cui il reduce prestava servizio ha
un’aria di condiscendenza- proprio lui, l’imboscato! Finisce come deve finire.
Tra il racconto iniziale e quello finale, quattro altre storie, quattro
altri momenti. In una, dal tono sferzante di selvaggia ironia, c’è un
comandante di alto grado seduto ad un caffè in una cittadina in cui non arriva
il rumore della guerra- è stato dato l’ordine di proibire ai feriti in
convalescenza di aggirarsi per le strade. Il comandante sproloquia sulla
grandiosità della guerra, su come se ne avvantaggino tutti, sui bei giovani
abbronzati che tornano dal fronte. E poi, che cosa mai potrebbe fare un
generale in tempo di pace? In quell’atmosfera tranquilla si sente un’eco
lontana: “Grazie a Dio! La guerra c’era ancora”.
Indugio su uno dei sei capitoli, “Il battesimo del fuoco”, perché mi
pare il più pregnante di significato, quello che, nel contrasto tra il non più
giovane capitano Marschner e il neppure ventenne Weixler, rinchiude in sé il
vissuto dello scrittore stesso. Devono raggiungere la prima linea con un
manipolo di soldati, hanno davanti 2 chilometri di campo aperto, poi lo
scontro- il tempo per riflettere per Marschner, per caricarsi di esaltazione
per Weixler. Marschner pensa agli ‘uomini’ che vestono la divisa, lascia
indietro a guardia del bosco un soldato giovane (ricorda di aver visto la
madre, una vecchina che lo abbracciava, alla stazione di Vienna, ma no, sua
madre non c’entrava per niente nella sua decisione). Weixler denuncia la
vigliaccheria di un ragazzo con i capelli rossi, quello che grida ‘Gesù Maria’
ad ogni esplosione di shrapnel. Marschner lo rivede alla stazione con una bimba
con i riccioli di fuoco in braccio: lui non vuole mandare a morire la gente,
eppure Weixler annuncia con tono di trionfo che hanno perso 14 uomini.
Marschner si augura che gli shrapnel insegnino il dolore a questo ragazzo
glaciale, che lo convincano della sua vulnerabilità. Si avvererà il desiderio
di Marschner nel corso dello scontro contro i Katzelmacher? A proposito, siamo noi prolifici italiani, i Katzelmacher che fanno tanti gattini.
Un piccolo gioiello finora sconosciuto
della narrativa di guerra.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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