Voci da mondi diversi. Asia
INTERVISTA AD AMITAV GHOSH, autore di “Mare di papaveri”
Incontrare Amitav Ghosh è sempre
un’esperienza speciale. Ci sono degli scrittori che ti danno subito
l’impressione, appena li incontri, di avere molto da dire, da comunicare. Sai
immediatamente, quando iniziano a parlare, che ti offriranno molto su cui
riflettere. Amitav Ghosh, che è nato a Calcutta nel 1956, ha studiato a Oxford
e divide la sua vita tra la città natale e New York, è uno di questi. Abbiamo
parlato con lui del suo nuovo romanzo ambientato al tempo della Guerra
dell’Oppio.
Perché ha scelto questa data e questo momento per la storia dell’India?
Perché penso che quello
fu un momento cruciale per la storia mondiale. In genere pensiamo alla
Rivoluzione francese come al momento cruciale dopo il quale ci furono grandi
cambiamenti, ma fra cinquant’anni credo che sarà la guerra dell’oppio ad essere
considerata tale, perché se la
Rivoluzione francese e altri momenti dell’800 hanno gettato
le fondamenta per la storia del secolo XX, la guerra dell’oppio getta le
fondamenta per quella del secolo XXI. Gli anni ‘30 del secolo XIX sono molto
interessanti. Sono il momento in cui inizia una grande emigrazione che è
destinata a cambiare la struttura demografica di alcune parti del mondo. E’
anche un periodo interessante per il rapporto economico tra l’India e la Cina : il capitalismo di oggi
deriva dal commercio dell’oppio. Tanti enti moderni sono fondati sui proventi
della guerra dell’oppio.
Nel romanzo una serie di personaggi, un pezzo di realtà indiana,
finiscono sulla stessa nave. Che cosa era l’India in quel momento? Come era
socialmente e culturalmente?
L’India era in uno stato
di rivolgimenti, stavano nascendo le città di Bombay e di Calcutta…Ci sono
somiglianze bizzarre con situazioni di oggi- pensiamo alle prigioni di
Guantanamo. Gli inglesi avevano delle prigioni nelle isole di tutto l’Oceano
Indiano. Ci sono fotografie di prigionieri interamente nudi in procinto di
essere deportati che fanno pensare alle foto dei detenuti di Guantanamo.
Il romanzo sembra un grande arazzo lavorato con tanti fili che formano
un’immagine: come lavora a comporre un quadro così complesso e multicolore
senza perdere i fili?
E’ semplice: ho guardato
gli elenchi degli equipaggi e delle persone che viaggiavano a bordo delle navi
di migranti dal Bihar. I capitani delle navi erano americani, australiani o
inglesi, i marinai erano indiani- una volta poi che cerchi di pensare chi erano
queste persone individualmente raggiungi questa complessità. E’ un libro su una
nave: la giustapposizione di vite diverse nello spazio angusto di una nave.
Ciascuno parla la sua lingua nel romanzo- Lei ha parlato del ‘rumore di
fondo’ dell’India; sappiamo anche che, nelle sue ricerche, ha anche scoperto
lingue perdute…Come è riuscito a creare questo composito linguistico?
La lingua dei lascari, l’equipaggio di
bordo, era molto interessante- guardando le liste del personale di bordo delle
navi, mi sono reso conto che l’equipaggio era formato da cinesi, malesi,
indiani, africani, e mi sono chiesto, ‘ma come funzionava? Come riuscivano a
dare ordini?’ E ho avuto l’intuizione che ci dovesse essere una lingua comune.
Ho trovato, infatti, un dizionario del 1812 con il linguaggio ‘di bordo’: fu
una scoperta eccitante, ho trovato che molte parole erano portoghesi, e infatti
molte parole indiane, ormai radicate nell’uso comune, sono portoghesi, anche se
non sappiamo più che hanno questa origine. Non ci sono confini tra le lingue,
c’è un passaggio fluido da una lingua all’altra- me ne accorgo io stesso,
l’inglese che parlo qui non è lo stesso che parlo in India…La mia traduttrice
italiana, Anna Nadotti, è stata bravissima, è stata capace di trovare il
registro giusto per queste lingue. L’inglese è una lingua ricca di registri e
di sottoregistri, forse l’italiano non lo è altrettanto, ma Anna Nadotti è
riuscita a trovare il linguaggio giusto.
Oltre alle ricerche negli archivi, è vero che ha fatto anche ricerche
‘sul posto’, andando nei Carabi, ad esempio, per imparare a manovrare una
goletta?
La parte delle ricerche
è, per me, la parte più divertente. E’ stato divertente veleggiare nei Carabi,
ed è l’esperienza che ti dà il senso di connessione tra le varie cose. E poi,
nelle ricerche, ti imbatti in cose inaspettate. La scoperta più stupefacente è
stata quella della fabbrica dell’oppio di cui parlo nel libro, in un testo del
1860 scritto dall’ex direttore britannico della fabbrica e inteso come una
guida turistica al luogo…
Oltre alla fabbrica dell’oppio, quali altre cose ha scoperto, che non
sapeva, sugli inglesi e sull’India e gli indiani di quell’epoca?
Come moltissimi indiani
non avevo assolutamente idea di quanto fosse esteso il commercio dell’oppio
nell’800. L’Impero Britannico era fondato sull’oppio, fu l’oppio che lo rese
possibile. Non sono io che sono poco informato, ho chiesto in giro e mi sono
reso conto che anche nella cerchia dei miei amici era una cosa che non si
sapeva, che è circondata da segretezza e vergogna- non se ne parla. E’ una
delle cose più orrende della Storia: l’India avvelenava i suoi vicini cinesi, e
si parla di 150 anni con milioni di morti per dipendenza dall’oppio. Nessuno
può dire che non sapeva le conseguenze- i Cinesi per primi sapevano: furono i
primi ad avere a che fare con l’epidemia della droga. E l’oppio fu introdotto
in maniera sistematica dalla Compagnia delle Indie, dai mercanti inglesi e
olandesi. I cinesi cercarono di resistere, non accettarono mai la
legalizzazione dell’oppio, ma persero la guerra: fu veramente uno degli episodi
più orrendi della Storia. E l’ironia è che il commercio fu fatto in nome del
libero commercio, tirando in ballo le dottrine di Adam Smith.
Quindi il richiamo tra il titolo “mare di papaveri” e il fatto che oggi
siamo letteralmente ‘inondati’ dalla droga è esplicitamente voluto?
Assolutamente sì, ero
consapevole di quello che il titolo evoca nel lettore: la Cina fu il primo paese a
gestire la circolazione di massa della droga. I commercianti europei e
americani hanno usato il commercio cinese dell’oppio per destabilizzare il
governo cinese. Le droghe possono destabilizzare i governi e le società:
vediamo quanto è successo in Cina, in Birmania, in Afghanistan. Se c’è una
lezione che si può trarre è che la risposta alla circolazione di droga dovrebbe
essere razionale, non dovuta ad un eccesso di moralizzazione e neppure alla
tentazione di reazioni estreme.
Uno dei personaggi ha un nome famoso nella letteratura americana, Mr.
Chillingworth, come il personaggio della “Lettera scarlatta”: è un caso?
Sa che non mi era affatto
venuto in mente? E sì che amo molto il romanzo di Hawthorne…No, è un nome che
appariva veramente negli elenchi degli equipaggi che ho consultato. E’ una cosa
strana: si direbbe che i nomi dovrebbero essere sempre gli stessi e invece non
è così. E’ uno dei motivi per cui sono andato a spulciare negli archivi: anche
i nomi cambiano nel tempo, proprio come le facce delle persone- se guardiamo i
film degli anni ‘20 o ’30, le facce degli attori sono diverse da quelle di
oggi.
Il personaggio più strano e meno comprensibile per noi lettori
occidentali è quello del gomusta che prende le sembianze della donna amata:
come nasce questo personaggio?
Il fatto strano è che
quest’uomo è proprio basato su un personaggio vero. Un amico, un Bengali molto
distinto, ambasciatore in Pakistan, mi ha scritto proprio così, ‘tutti i
lettori penseranno che sia inventato, un prodotto della fantasia, e invece solo
noi sappiamo quanto sia comune nel Bengali’. Perché si diventa donna nella
venerazione di Krishna. Pure Shiva, quando varca la soglia del paese di
Krishna, lo fa in veste femminile.
“Mare di papaveri” è il primo di una trilogia: dove ci porterà la Ibis ?
Un libro è sui personaggi, per me questo
romanzo e i seguenti sono su questi personaggi. Voglio avere spazio e tempo per
seguirli, parlare dei loro figli e nipoti, delle mie esperienze, dei rapporti
famigliari e con gli amici, che crescono come un albero che mette nuovi rami e
dà frutti. Voglio seguire le storie dei personaggi e delle loro famiglie, ma
non so ancora dove mi porterà la Ibis.
E ’ come quando si vedono delle luci sul mare nella notte e
non si sa di preciso dove siano e come ci si arriverà e che cosa ci sia in
mezzo.
l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net
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