mercoledì 15 ottobre 2025

Hwang Sŏk-Yŏng, “L’ospite” ed. 2006

                                                              Voci da mondi diversi. Corea

     guerra civile in Corea

     rilettura

Hwang Sŏk-Yŏng, “L’ospite”

Ed. Baldini Castoldi Dalai, trad. Ombretta Marchetti, pagg. 279, Euro 17,00

      Ci siamo abituati a vedere la guerra come spettacolo sullo schermo televisivo, ad essere aggiornati sulle notizie in tempo reale, a provare una forte e immediata reazione emotiva alle immagini e a dimenticarle subito dopo, incalzati da nuove tragedie umane. Abbiamo vissuto diversamente la guerra di Corea, negli anni ‘50, filtrata dalla lontananza e dall’estraneità. Per noi occidentali era la prima incrinatura nel fragile equilibrio dei due blocchi di potenze mondiali, lo spauracchio del comunismo che ci veniva agitato davanti agli occhi, come fosse il peggiore dei mali.

      I romanzi di Hwang Sŏk-Yŏng, nato nella Corea del Nord nel 1943, combattente suo malgrado in Vietnam, dissidente politico costretto all’esilio, arrestato e imprigionato per sette anni al suo ritorno a Seul nel 1993 ed ora docente universitario a Londra,  ci fanno rivivere quella guerra vista dall’interno come lotta tanto più crudele perché fratricida, tanto più difficile da dimenticare perché la morte arrivava da parte di chi si conosceva. Nel nome di un’ideologia politica o di un credo religioso: “Noi eravamo l’esercito di Cristo. Loro, i Rossi, erano i figli di Lucifero! I seguaci di Satana…Lo spirito divino era disceso su di noi.”, dice Yo-Han uno dei protagonisti de “L’ospite”, appena pubblicato da Baldini e Castoldi. 

Pyongyang

La vecchia nonna dei fratelli Yo-Han e Yo-Sop era solita dire che il paese sarebbe andato a catafascio se si fosse accolto un Dio venuto da altri luoghi- e il Dio dei cristiani è un ospite in Corea come lo è il Marxismo o l’esercito americano intervenuto nella guerra, come lo erano precedentemente i giapponesi che avevano occupato il paese. Sempre con un significato negativo, se l’ospite per antonomasia era il temutissimo vaiolo, come ricorda la nonna. Sono invece ospiti diversi Yo-Sop e gli altri esuli coreani “invitati” a tornare in patria per un ricongiungimento con le loro famiglie. E così, sotto una pioggia grigia che lava le colpe e intristisce gli animi, Yo-Sop compie il viaggio di ritorno al villaggio che ha lasciato mezzo secolo prima, ascoltando le testimonianze dei vivi e dei morti.


     E’ pieno di voci, il romanzo di Sok-Yong, e a volte è difficile distinguere se la voce che ascoltiamo arrivi da questo mondo o dall’aldilà, se appartenga a uno dei fantasmi, ombre di ospiti che si aggirano già nel New Jersey prima che Yo-Sop parta, a inquietare suo fratello Yo-Han che muore all’improvviso. Un fantasma in più che si aggiunge alle altre ombre senza pace che rievocano i giorni della carneficina, degli stupri, della violenza indiscriminata, da parte di coloro che si schieravano con l’arcangelo Michele o dei Rossi o degli yankee. Il senso di colpa pervade il romanzo di Sok-Yong, condiviso da chi si è macchiato le mani di sangue e dai figli che avvertono in certo qual modo di dover espiare le colpe dei padri, da chi si è allontanato dal paese sperando di dimenticare e da chi è rimasto con la volontà di ricostruire.

Seoul

Perché, a Yo-Sop che gli dice, “Ma né voi né io siamo stati implicati in quei massacri”, il saggio zio risponde, “Ma chi può negare in situazioni del genere, di avere la sua parte di responsabilità?”. 

    E tuttavia il tempo medica tutto, risana le ferite, è ora di dar pace ai fantasmi- è questo è il significato dell’atto ultimo di Yo Sop prima di ripartire, seppellire l’osso prelevato dalle ceneri del fratello e dare fuoco all’indumento con cui questi aveva avvolto il figlio. Come in un rito sciamanico per allontanare il vaiolo, per acquietare gli spiriti dei defunti.

la recensione è stata pubblicata nel 2006 su www.stradanove.it



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