Voci da mondi diversi. Giappone
Mieko Kawakami, “Heaven”
Ed.
e/o, trad. Gianluca Coci, pagg. 283, Euro 11,99
Non sono certo la coppia dei sogni, il
protagonista e Kojima, la sua compagna di classe. Il tratto più distintivo di
lui (voce narrante del romanzo “Heaven” di Mieko Kawakami) sono gli occhi
fortemente strabici che gli impediscono anche una nitida visuale. Lei sembra
(non solo sembra, lo è) sempre sporca, manda odore, ha una leggera peluria sul
volto, indossa una divisa scolastica sgualcita e consunta. In una parola, è
brutta. Lui e lei sono le vittime del bullismo dei compagni di scuola- il
peggior carnefice di lui ha anche un nome, Ninomiya, e ce n’è un altro, Momose,
che ha un ruolo meno attivo nelle regolari persecuzioni- ma non è altrettanto
colpevole chi assiste senza intervenire? E, a questo proposito, una domanda che
ci facciamo leggendo degli ‘scherzi’ a dir poco pesanti è dove siano gli
insegnanti- è possibile che non si accorgano mai di niente? Che non subodorino
mai niente, pur non essendo testimoni oculari dei fatti? Che non si accorgano
degli umori, delle correnti che serpeggiano nella classe?
Non c’è carnefice senza vittima e lui e lei sono le vittime perfette, come se fossero convinti loro stessi di meritare quelle angherie. E alcune scene nel libro sono raccapriccianti, di una crudeltà gratuita e inaudita, fanno star male noi di riflesso.
Quando lui trova un primo biglietto
attaccato sotto il banco, si accende una piccola luce. Poi, dopo una lunga
serie, un messaggio diverso che fissa un appuntamento, in un piccolo parco dove
c’è una balena di cemento. Con il timore che sia un ennesimo scherzo, senza
sapere chi incontrerà, lui si reca nel luogo fissato e incontra lei- sono i due
sfigati della classe.
Non cambia nulla nella loro vita
quotidiana, non cessano per miracolo le bullizzazioni, ma il filo di amicizia
teso tra di loro, la solidarietà che si stabilisce, il sapersi compresi, gli
incontri che si fanno regolari rendono tutto più sopportabile.
Ci sono due momenti culminanti nel romanzo, uno l’antitesi dell’altro. Un giorno i due quattordicenni fanno una breve gita in treno, visiteranno un museo dove sono esposti dei quadri di un pittore non nominato ma che, dalla descrizione, è Chagall- coppiette che si librano nell’aria, che trovano una fuga in un mondo di sogno. E poi il quadro a cui lei ha dato il titolo di “Heaven”, e tuttavia ne parla soltanto, lui non vedrà questo dipinto che, a quanto pare, è il paradiso per lei, e anche a noi resta la curiosità.
All’opposto
di questa giornata serena c’è il terribile gioco a calcio umano organizzato dai
persecutori di lui. Ci stupiamo che lui non muoia, che la madre accetti la
giustificazione che lui è stato investito da una bicicletta, che anche il
dottore dell’ospedale non indaghi.
Dei due, è lei quella che teorizza sulla
violenza, che cerca di dare un significato e un valore alla loro passività. Lui
ascolta, non convinto. Finché è il dottore che lo ha curato in ospedale ad
incitarlo ad un cambiamento radicale. E il finale è bello e consolatorio, anche
se non risolutivo.
Continuai
a piangere, in piedi nel mezzo di quell’ineffabile bellezza, senza pensare a
niente. Le lacrime scendevano incessanti sulle mie guance. Tutto era bello.
Senza nessuno a cui dirlo, senza nessuno a cui mostrarlo, semplicemente e
meravigliosamente bello.
Un breve romanzo lineare che esplora un
fenomeno diffuso, di cui non si ha il coraggio di parlare, come non si ha il
coraggio di dire che la violenza esercitata trova la sua giustificazione nel
divertimento che offre- che idea possiamo avere di una gioventù stanca di tutto
e che è violenta perché ‘le va di fare così’, perché è divertente?
Terribilmente allarmante.
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In tutte le classi c'è una vittima di bullismo, sempre. E tutte le volte che ho denunciato qualcosa in consiglio di classe è regolarmente emerso che ero l'unica ad essermene accorta. Uno è stato addirittura spinto con un piede sotto la ruota di un autobus. Quella volta ho chiesto energicamente un intervento esterno, perché ritenevo che fosse a forte rischio di suicidio, e sono riuscita a ottenerlo perché per caso il preside aveva avuto modo di vedere che era costretto a prendere l'autobus delle superiori perché in quello delle medie non lo lasciavano salire,. oltre che per il fatto che in quella classe stavo conducendo un progetto particolare. E' intervenuto un sociologo che ha fatto un grosso lavoro con la classe per renderli consapevoli di quanto questo o quel comportamento potesse ferire profondamente. E da allora tutto è cambiato: mentre prima colpivano a caso e a volte centravano l'obiettivo e a volte no, da quel momento, sapendo esattamente che cosa poteva ferire più a fondo, di colpi a vuoto non ce ne sono più stati.
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