Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
Serhij Žadan, “Il convitto”
Ed. Voland, trad. G. Brogi, M. Prokopovy,
pagg. 320, Euro 17,00
Il romanzo “Il convitto” di Serhij Žadan si svolge in tre giorni, durante questa guerra. Nessun luogo geografico è precisato, tranne ‘il confine’ che è nelle immediate vicinanze. Paša ficca alcune cose nello zaino e lascia la casa dove abita con il vecchio padre e la sorella per andare a prendere il nipote tredicenne Saša, in un convitto in città. Saša è figlio della sorella, sapremo poi che soffre di epilessia- un ragazzo non amato di cui, però, Paša si sente responsabile: in quei tre giorni si rimprovererà più volte di non averlo riportato prima a casa. Prima, quando non era ancora diventato così difficile e pericoloso muoversi.
Romanzo di viaggio (diverso da qualunque
altro si sia letto), romanzo di guerra (così confusa, si scrutano le bandiere
per capire se si ha davanti l’invasore), romanzo di una duplice formazione (di
zio e nipote), romanzo di un riavvicinamento famigliare- è tutto questo, “Il
convitto”.
In tempi normali andare in città, al convitto, sarebbe stata una breve distanza, ma, tra deviazioni, soste forzate per scampare al fuoco nemico, ritornare sui propri passi per aggirare punti pericolosi ci erano voluti tre giorni e a Paša, ad un certo punto, era sembrato di essersi mosso come un orso in un circo, che gira sempre su se stesso.
La
domanda a cui Paša deve spesso rispondere è perché mai non sia fra le fila di
chi combatte. Gli è sufficiente mostrare una sua mano per provare la sua
invalidità. Fa l’insegnante, Paša, e sembra che questo gli conferisca una certa
autorevolezza. Ma- e lo sa solo lui- a Paša non piace insegnare, non riesce a
comunicare con i ragazzini, neppure con suo nipote. Quando incontra la
direttrice e l’insegnante di educazione fisica del convitto, Paša ha un esempio
di come dovrebbe essere anche lui. Dell’insegnante resterà un cappotto
crivellato di colpi e insanguinato- è questo che spinge Paša ad assumere il
ruolo di portavoce per la sua gente ammassata in un riparo di fortuna, per
fargli avere dai ‘nostri’ un servizio di cucina con un pasto caldo?
Il qualunquista Paša, che non si interessa a niente, che non prende parte agli eventi drammatici intorno a lui, si risveglia ad una nuova consapevolezza. È obbligato a farlo, non da ultimo per un senso di responsabilità nei confronti del nipote che dapprima è il suo antagonista, che sembra faccia apposta a sfidarlo, a prendersi gioco di lui, a fingersi più adulto di quanto non sia.
Zio e nipote cambiano. Lentamente, con la stessa lentezza con cui il loro cammino di ritorno a casa procede, fra macerie e morti, con cui le ore di quei tre giorni non sembrano passare mai. Se era lo zio dapprima a temere per l’epilessia del nipote, poi è il nipote a preoccuparsi per i problemi di cuore dello zio, se era lo zio a tirare fuori una scatoletta dallo zaino (e a tagliarsi per cercare di aprirla, maldestro con una sola mano) e ad offrirla a Saša, dopo è Saša a porgergli la cioccolata che aveva messo da parte.
C’è un colore dominante nel romanzo di
Serhij Žadan- il grigio. Grigio della pioggia sottile, della neve sporca, delle
macerie, degli edifici in rovina, perfino delle persone che Paša incontra.
Sembrano tutti fantasmi in sporchi lenzuoli. C’è un’atmosfera dominante, pure
quella grigia. Di paura, di incertezza, di disperazione, di morte. Ed è in
questo grigiore che si spalanca il baratro tra la letteratura occidentale e
quella dei paesi che una volta erano ‘oltre cortina’. È come se i ‘nostri’
romanzi potessero crogiolarsi nell’irrilevanza, mentre i ‘loro’ hanno qualcosa
di importante e di vitale da comunicare, da rendere assolutamente necessaria la
loro lettura.
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