lunedì 28 dicembre 2020

Bae Suah, “Notti invisibili, giorni sconosciuti” ed. 2020

                                                                 Voci da mondi diversi. Corea


Bae Suah, “Notti invisibili, giorni sconosciuti”

Ed. Add, trad. Andrea De Benedettis, pagg. 162, Euro 18,00

    Il teatro per non vedenti di Seoul chiude i battenti. Ultimo giorno di lavoro per la ventinovenne ex-attrice Ayami che, però, ha già trovato un’altra temporanea occupazione- la sua amica le ha chiesto di fare da guida ad un poeta straniero che arriverà all’aeroporto di Seoul quella stessa sera. Mentre è seduta sugli scalini del teatro, Ayami sente una voce provenire da una radio nascosta chissà dove e i versi della poesia di Neruda, Non star lontana da me…un solo giorno…perché,/ perché…è lungo il giorno,/ e ti starò attendendo… A volte, però, la voce della radio comunica le condizioni meteorologiche che interessano i marinai, la forza del vento, pioggia in arrivo…Dovevano essere interferenze, ma il tecnico del suono, che arrivava su un autobus bianco di cui era il guidatore e l’unico passeggero, non aveva mai risolto il problema.

   I versi di Neruda, le previsioni meteo (in una Seoul che si sta sciogliendo per il caldo), l’autobus bianco e un’infinità di altri dettagli- l’abito inamidato della bambina cieca, una fotografia che ritrae Ayami, l’uomo folle con gli occhi striati dai capillari rossi, un paio di scarpe, “La civetta cieca” (capolavoro della letteratura iraniana, una discesa negli abissi allucinati della coscienza, dello scrittore Sadegh Hedayat), scorci di strade- ritornano più e più volte nelle pagine del romanzo della giovane scrittrice coreana Bae Suah. È un romanzo con una trama sfilacciata che non è neppure una trama, se da una trama ci aspettiamo che ci narri qualcosa che accade. Una trama che, ridotta all’osso, si riduce  a ventiquattr’ore in cui Ayami prima pranza con il suo capo, poi si dirige all’aeroporto e infine visita Seoul con il poeta straniero. Ma i punti fermi della narrazione sono pochi perché prevale un’atmosfera fluttuante e indefinita da sogno in cui non è mai chiaro il confine tra il reale e l’immaginato, tra il concreto e la fantasia della mente. Pensiamo al verso di Calderòn de la Barca, la vita è sogno e i sogni sono sogni. Pensiamo a “Doppio sogno” di Schnitzler e al film “Eyes wide shut” e smettiamo di chiederci il significato di quello che leggiamo, lasciandoci trascinare in un labirinto in cui inseguiamo divertiti le immagini fuggevoli che giocano con noi, cercando di ricordare dove le abbiamo già incontrate, sorprendendoci a fare come Ayami che legge il labiale anche sulle labbra delle persone che può perfettamente udire con le sue orecchie. Perché il labiale è meno esplicito, nel labiale anche il linguaggio fluttua tra il vero e l’immaginato.

   Questa incertezza costante, che  sembra essere la cifra del nostro mondo, riguarda anche i personaggi- Ayami sembra a tratti trasformarsi nella sua amica Yoni, così come è incerta l’identità del suo capo e pure del poeta scrittore. E la scomparsa di Yoni, su cui si indaga, non è mai risolta. Ma esisteva davvero, poi, Yoni? O era un doppio di Ayami?

    Quanto a Seoul, è una città altrettanto sfuggente quanto i protagonisti di questa storia. Mai ben delineata, effimera, avvolta nell’oscurità della notte o in una foschia da sogno- il sogno di chi? Chi è che sta dormendo e ci sta sognando? “Portami in un altro mondo”, sussurra il direttore prima di morire in maniera alquanto misteriosa. Quale altro mondo? Perché Ayami ha detto al poeta che nessun treno può superare il confine e il mondo, allora, incomincia e finisce in Corea.

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