Voci da mondi diversi. Medio Oriente
Shoah
Savyon Liebrecht, “Le donne di mio padre”
Ed. e/o, trad. Alessandra
Shomroni, pagg. 252, Euro 18,00
Titolo originale: HaNshim shel Aba
Meir Rosenberg ha trent’anni quando
la madre gli dice che il padre, che Meir credeva morto, è vivo. Che ha passato
più di diciotto anni in prigione. Che è molto ammalato e che verrà in America a
farsi curare. Come può reagire un giovane uomo ad una notizia del genere, che
sconvolge il suo presente e fa riaffiorare un passato che aveva volutamente
dimenticato? Sbattendosi la porta alle spalle e scendendo di corsa le scale,
scordando che c’è l’ascensore. Fuggendo dai ricordi che da questo momento lo
assilleranno, inarrestabili.
“Le donne di mio padre” della scrittrice
israeliana Savyon Liebrecht è un libro di ricordi che il lettore non riuscirà a
dimenticare, un romanzo sul rapporto di un padre con il figlio e di come i
comportamenti del padre abbiano influenzato quelli del figlio, una storia di un
duplice viaggio- di Meir, bambino di sette anni, che viene messo su un aereo
che da Tel Aviv lo porta a raggiungere la madre a New York, e di Meir trentenne
che ritorna in Israele per incontrare il padre. E se, come ha detto un grande
scrittore, la vita è una detective story, anche quella di Meir è un’indagine
con un risvolto poliziesco. Perché, sulle tracce del passato, non è solo la
personalità del padre che Meir vuole ricostruire, ma anche che cosa sia
successo nella stanza di cui ricorda solo una grande macchia rossa su un
lenzuolo.
Esiste una
verità? O la verità ha molte facce e ognuno ha la propria verità, così come
ognuno ha la propria versione dei ricordi? Il fascino di questo libro è in
parte anche in questo- nel procedere accumulando immagini del passato, a volte
frammenti minuti, a volte quadri più ampi. Mettendo a confronto i ricordi di
Meir con quelli del padre che, ogni tanto, sembra voler manipolare la memoria
del figlio. Perché chi era in realtà Aharon Rosenberg, arrivato in Israele dalla
Polonia attraverso la Russia ,
scampato all’Olocausto? Soltanto il vecchio Berel, che vedeva la Gestapo nella polizia
israeliana, aveva conosciuto l’ Aharon di prima della guerra; a Tel Aviv il
padre di Meir era un poeta squattrinato, un giornalista occasionale, l’uomo
aitante che aveva sposato una ricca turista americana. Quando questa era andata
a trovare il padre ammalato nel Connecticut, Aharon Rosenberg era stato
sfrattato perché non era in grado di pagare l’affitto. E aveva avuto inizio il
suo peregrinare con Meir. Ecco: è incredibile quanto lunghi possano essere
cinque brevi mesi, 150 notti passate- in quante case diverse?
La tecnica del
fascinoso Aharon è sempre la stessa: si aggira intorno al caffè degli
intellettuali, o nelle sale da ballo, o dove possa fare degli incontri;
adocchia una donna, la avvicina, la corteggia, si fa invitare a casa sua. Dopo
essersi accertato che le piacciano i bambini, perché Meir lo segue ovunque,
ascolta quello che un bambino non dovrebbe sentire, vede quello che non dovrebbe
vedere. A volte dorme nello stesso letto dove i due gemono facendo sesso. O non
dorme e si tappa le orecchie, nascondendo la testa sotto il cuscino. Era per
mettere un tetto sulla testa del figlio che Aharon aveva elaborato questa
strategia? O perché non poteva fare a meno delle donne, come dirà molto tempo
dopo, parlando degli anni in prigione? E che cosa era successo nella casa delle
due sorelle, dove si erano fermati più a lungo?
E’ raro trovare un libro in cui la trama
sia, dopotutto, esile eppure così ricca e piena, con dei personaggi a cui
continuiamo a pensare anche dopo aver terminato la lettura. Perché questo è un
romanzo che ha l’ambiguità della vita stessa e, quando crediamo di aver capito
tutto di Aharon Rosenberg, arriviamo all’ultima sezione del libro, aspettandoci
altre rivelazioni. Invece troviamo una sola pagina, con una poesia scritta da
Aharon in carcere. Bellissima. E il nostro giudizio viene capovolto.
la recensione e l'intervista che segue sono state pubblicate su www.wuz.it
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