venerdì 17 febbraio 2017

Riccardo Chiaberge, "Salvato dal nemico" Intervista 2004

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INCONTRO CON RICCARDO CHIABERGE, autore di “Salvato dal nemico”

La storia di una strage taciuta per tanti anni, nel libro di Riccardo Chiaberge “Salvato dal nemico”, storia di un paese e di una famiglia- quella dell’autore- sullo sfondo della Storia d’Italia negli anni più drammatici della guerra, il 1943 e il 1944. Abbiamo ascoltato lo scrittore parlare del suo romanzo, rispondendo alle domande.

Ci sono due metafore che percorrono tutto il romanzo, quella del clima e quella del ghiacciaio.
     Sì, i due personaggi, Ettore Monticone e Brigitte, entrambi giornalisti, si incontrano ad un congresso sui cambiamenti del clima, sui rischi del riscaldamento della terra: è una metafora della guerra, qui si combatte un confronto tra interessi economici e c’è in gioco la salvezza del pianeta. In più, si rovesciano le parti: in questa guerra i tedeschi, con Brigitte che è dei Verdi, sono gli angeli vendicatori, mentre gli americani sono i devastatori dell’ambiente. All’inizio, nell’incontro di Tokyo, Ettore è piuttosto scettico riguardo alla problematica del riscaldamento globale, poi cambia idea e, nella scena finale di loro due sul ghiacciaio, sembra che si arrenda all’evidenza del cambiamento del clima, pur conservando un atteggiamento di rassegnazione. Lo vede come una deriva difficilmente arrestabile e il ghiacciaio diventa una metafora del nostro rapporto con la memoria: il ghiacciaio conserva tutto, sembra l’incarnazione di una divinità che ogni tanto restituisce qualcosa che aveva nelle sue viscere, delle reliquie del passato che tornano a galla. E’ come un grande frigorifero che conserva le nostre memorie.


Il tema della memoria e il problema che essa pone, perché esiste una memoria individuale e una memoria storica. Esiste una memoria individuale?
    Questo è il punto centrale che emerge quando l’io narrante si confronta con i testimoni e ne viene fuori che il racconto dello stesso fatto storico può assumere coloriture diverse. Il confronto con queste testimonianze pone proprio questo interrogativo: è possibile una memoria condivisa o si tratta sempre di una memoria individuale che appartiene ad ogni famiglia secondo l’esperienza che hanno vissuto? Subentra dunque il giudizio storico, anche se le memorie individuali vanno rispettate.

Parliamo dei testimoni, Baldo, Leandro, e poi di quelli che sono veramente esistiti.
     Leandro è un personaggio chiave, perché prestava il suo camion ai partigiani: la figlia diceva che subiva queste imposizioni, altri dicevano che collaborava, ma questa era un’ambiguità diffusa, era una situazione così difficile, l’appoggio ai partigiani aumentava man mano che i paesi erano più vicini alle montagne. Baldo ha le idee chiare: era nell’esercito e l’8 settembre lui decide: di fronte ai tedeschi che prendono prigionieri i soldati italiani, lui sceglie la lotta clandestina- incominciavano a formarsi le prime bande. Baldo non ha una coscienza politica chiara, lo fa per istinto, solo dopo l’incontro con il commissario politico maturerà una convinzione. Sul momento la sua scelta è istintiva e casuale. Ho cercato di far capire che, in un momento tragico e convulso, per la popolazione martoriata dalla guerra le scelte individuali erano dettate dal caso o dalla necessità. Le altre due figure chiave, quella di Gagliardi e di Paschero, sono due testimoni veramente esistiti, anche se con altri nomi. Gagliardi è il comandante dei partigiani che l’io narrante ha avuto il privilegio di incontrare- un privilegio perché ormai è breve il tempo in cui ci saranno ancora dei testimoni in vita. E’ un personaggio che ha un ruolo importante, perché è la figura di mediazione che ha cercato di evitare l’esito barbaro, di convincere i compagni ad accettare l’ultimatum dei nazisti, lo scambio con i prigionieri tedeschi e i militi di Salò. Lo scambio poteva essere fatto, non era ancora chiaro a tutti quali fossero le intenzioni del nemico, solo il fratello di Gagliardi, che aveva assistito agli eccidi dei civili nei Balcani, metteva in guardia sulla loro brutalità. In questo dibattito drammatico si persero ore preziose. Per una serie di piccole catastrofi, una gomma che si buca, una strada sbagliata, i mediatori arrivano in ritardo, quando l’eccidio è già compiuto.


Che cosa ne pensa Ettore o Chiaberge, dell’uomo che ha compiuto questo eccidio? C’è una responsabilità individuale o istituzionale?
     Scheel era giovane, aveva 26 anni. Non rispettò l’ultimatum, si lasciò trascinare dal superiore capo della gendarmeria di Torino che voleva l’esecuzione di questo ordine. La figura di Manfred Scheel è quella di un mediocre, la banalità del male, è un burocrate del crimine che non se la sente di ribellarsi agli ordini. Aveva anche un altro referente, un generale della Wehrmacht, che invece gli raccomandava prudenza. Il generale della Wehrmacht si era formato prima dell’avvento del nazismo al potere, ed è importante, perché noi tendiamo ad avere idee monolitiche e invece ci sono anche gli individui che si staccano dalla massa, c’è stato anche il nazista che ha fatto una soffiata ai partigiani. Ci sono dei giusti che cercarono uno spiraglio di umanità.

 La storia del romanzo segue un doppio registro, tra passato e presente. La tedesca Brigitte ha un figlio che le causa un po’ di problemi, un ragazzo sbandato, insofferente.
     Il personaggio di Werner è indicativo di un problema generazionale, come c’è un problema dei tedeschi sessantottini che hanno subito il processo della memoria, il processo di espiazione della generazione che doveva espiare le colpe dei padri, la generazione che ha rimosso tutto questo e ha spostato il suo orizzonte di impegno- si occupano delle piogge acide, del nucleare, non ne vogliono più sapere del nazismo. La generazione successiva è nata in famiglie tolleranti e liberali ed è alla ricerca della propria identità, cerca una maniera di esprimere la propria ribellione, proprio come ha fatto quella precedente.

Ci sono stati dei libri che l’hanno influenzata, mentre scriveva il suo romanzo?
     Per quello che riguarda la parte tedesca c’è poco, la letteratura tedesca ha rimosso questa fase storica, il periodo in cui i tedeschi erano vittima dei bombardamenti, della prigionia, del processo di denazificazione. Recentemente autori come Böll, Sebald, hanno parlato delle sofferenze dei civili. Tra gli italiani bisogna parlare di Fenoglio- anche se, per carità, non oso mettermi vicino a lui.

Il nome del paese, Cunassa, è preso da Senofonte…

    Sì, anche se devo dire che l’ho trovato per caso sul dizionario enciclopedico che si consulta quando si è alla ricerca di qualche nome, e l’ho scelto perché è la crasi di due luoghi a me familiari. Per combinazione è anche il luogo di cui parla l’Anabasi di Senofonte. Mi ha incuriosito questa assonanza, il luogo della battaglia tra Artaserse e Dario, della guerra fratricida.


recensione e intervista sono state pubblicate su www.lettera.it



     

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