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INCONTRO CON RICCARDO CHIABERGE, autore di “Salvato dal nemico”
La storia di una strage taciuta
per tanti anni, nel libro di Riccardo Chiaberge “Salvato dal nemico”, storia di
un paese e di una famiglia- quella dell’autore- sullo sfondo della Storia d’Italia
negli anni più drammatici della guerra, il 1943 e il 1944. Abbiamo ascoltato lo
scrittore parlare del suo romanzo, rispondendo alle domande.
Ci sono due metafore che percorrono tutto il romanzo, quella del clima
e quella del ghiacciaio.
Sì, i due personaggi, Ettore Monticone e
Brigitte, entrambi giornalisti, si incontrano ad un congresso sui cambiamenti
del clima, sui rischi del riscaldamento della terra: è una metafora della
guerra, qui si combatte un confronto tra interessi economici e c’è in gioco la
salvezza del pianeta. In più, si rovesciano le parti: in questa guerra i
tedeschi, con Brigitte che è dei Verdi, sono gli angeli vendicatori, mentre gli
americani sono i devastatori dell’ambiente. All’inizio, nell’incontro di Tokyo,
Ettore è piuttosto scettico riguardo alla problematica del riscaldamento
globale, poi cambia idea e, nella scena finale di loro due sul ghiacciaio,
sembra che si arrenda all’evidenza del cambiamento del clima, pur conservando
un atteggiamento di rassegnazione. Lo vede come una deriva difficilmente
arrestabile e il ghiacciaio diventa una metafora del nostro rapporto con la
memoria: il ghiacciaio conserva tutto, sembra l’incarnazione di una divinità
che ogni tanto restituisce qualcosa che aveva nelle sue viscere, delle reliquie
del passato che tornano a galla. E’ come un grande frigorifero che conserva le
nostre memorie.
Il tema della memoria e il problema che essa pone, perché esiste una
memoria individuale e una memoria storica. Esiste una memoria individuale?
Questo è il punto
centrale che emerge quando l’io narrante si confronta con i testimoni e ne
viene fuori che il racconto dello stesso fatto storico può assumere coloriture
diverse. Il confronto con queste testimonianze pone proprio questo
interrogativo: è possibile una memoria condivisa o si tratta sempre di una
memoria individuale che appartiene ad ogni famiglia secondo l’esperienza che
hanno vissuto? Subentra dunque il giudizio storico, anche se le memorie
individuali vanno rispettate.
Parliamo dei testimoni, Baldo, Leandro, e poi di quelli che sono
veramente esistiti.
Leandro è un personaggio chiave, perché
prestava il suo camion ai partigiani: la figlia diceva che subiva queste
imposizioni, altri dicevano che collaborava, ma questa era un’ambiguità diffusa,
era una situazione così difficile, l’appoggio ai partigiani aumentava man mano
che i paesi erano più vicini alle montagne. Baldo ha le idee chiare: era
nell’esercito e l’8 settembre lui decide: di fronte ai tedeschi che prendono
prigionieri i soldati italiani, lui sceglie la lotta clandestina-
incominciavano a formarsi le prime bande. Baldo non ha una coscienza politica
chiara, lo fa per istinto, solo dopo l’incontro con il commissario politico
maturerà una convinzione. Sul momento la sua scelta è istintiva e casuale. Ho
cercato di far capire che, in un momento tragico e convulso, per la popolazione
martoriata dalla guerra le scelte individuali erano dettate dal caso o dalla
necessità. Le altre due figure chiave, quella di Gagliardi e di Paschero, sono
due testimoni veramente esistiti, anche se con altri nomi. Gagliardi è il
comandante dei partigiani che l’io narrante ha avuto il privilegio di
incontrare- un privilegio perché ormai è breve il tempo in cui ci saranno
ancora dei testimoni in vita. E’ un personaggio che ha un ruolo importante,
perché è la figura di mediazione che ha cercato di evitare l’esito barbaro, di
convincere i compagni ad accettare l’ultimatum dei nazisti, lo scambio con i
prigionieri tedeschi e i militi di Salò. Lo scambio poteva essere fatto, non
era ancora chiaro a tutti quali fossero le intenzioni del nemico, solo il
fratello di Gagliardi, che aveva assistito agli eccidi dei civili nei Balcani,
metteva in guardia sulla loro brutalità. In questo dibattito drammatico si
persero ore preziose. Per una serie di piccole catastrofi, una gomma che si
buca, una strada sbagliata, i mediatori arrivano in ritardo, quando l’eccidio è
già compiuto.
Che cosa ne pensa Ettore o Chiaberge, dell’uomo che ha compiuto questo
eccidio? C’è una responsabilità individuale o istituzionale?
Scheel era giovane, aveva 26 anni. Non
rispettò l’ultimatum, si lasciò trascinare dal superiore capo della gendarmeria
di Torino che voleva l’esecuzione di questo ordine. La figura di Manfred Scheel
è quella di un mediocre, la banalità del male, è un burocrate del crimine che
non se la sente di ribellarsi agli ordini. Aveva anche un altro referente, un
generale della Wehrmacht, che invece gli raccomandava prudenza. Il generale
della Wehrmacht si era formato prima dell’avvento del nazismo al potere, ed è
importante, perché noi tendiamo ad avere idee monolitiche e invece ci sono
anche gli individui che si staccano dalla massa, c’è stato anche il nazista che
ha fatto una soffiata ai partigiani. Ci sono dei giusti che cercarono uno
spiraglio di umanità.
Il personaggio di Werner
è indicativo di un problema generazionale, come c’è un problema dei tedeschi
sessantottini che hanno subito il processo della memoria, il processo di
espiazione della generazione che doveva espiare le colpe dei padri, la
generazione che ha rimosso tutto questo e ha spostato il suo orizzonte di
impegno- si occupano delle piogge acide, del nucleare, non ne vogliono più
sapere del nazismo. La generazione successiva è nata in famiglie tolleranti e
liberali ed è alla ricerca della propria identità, cerca una maniera di
esprimere la propria ribellione, proprio come ha fatto quella precedente.
Ci sono stati dei libri che l’hanno influenzata, mentre scriveva il suo
romanzo?
Per quello che riguarda la parte
tedesca c’è poco, la letteratura tedesca ha rimosso questa fase storica, il periodo
in cui i tedeschi erano vittima dei bombardamenti, della prigionia, del
processo di denazificazione. Recentemente autori come Böll, Sebald, hanno
parlato delle sofferenze dei civili. Tra gli italiani bisogna parlare di
Fenoglio- anche se, per carità, non oso mettermi vicino a lui.
Il nome del paese, Cunassa, è preso da Senofonte…
Sì, anche se devo dire
che l’ho trovato per caso sul dizionario enciclopedico che si consulta quando
si è alla ricerca di qualche nome, e l’ho scelto perché è la crasi di due
luoghi a me familiari. Per combinazione è anche il luogo di cui parla l’Anabasi
di Senofonte. Mi ha incuriosito questa assonanza, il luogo della battaglia tra
Artaserse e Dario, della guerra fratricida.
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