Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
Shoah
il libro ritrovato
Jadwiga Maurer, “Controfigure”
Ed. Giuntina, trad.
Laura Quercioli Mincer, pagg. 211, Euro 14,00
Titolo originale: Sobowtóry
Opowiadania zebrane
Al di sopra dei frammenti di
discorso si sentiva lo sventagliare della camicia azzurra di Władek. Lo guardavo e sentivo
chiaramente che stavamo scivolando insieme sul fondo del tempo. Così tante cose
ci univano, noi che vivevamo ancora ma in realtà non c’eravamo più. Nessuno dei
vivi ci conosceva più, nessuno si ricordava più di noi. Ma troverete informazioni
che ci riguardano nelle pagine dei saggi di storia polacca.
Tra i tanti libri che escono
puntuali, ogni anno a gennaio, per il Giorno della Memoria (ricorrenza
istituita nel 2000 per ricordare le vittime del nazionalsocialismo e del
fascismo), “Controfigure” di Edwiga Maurer occupa un posto particolare. Nel
racconto intitolato “Enclavi”, che fa parte della raccolta, la scrittrice,
parlando di sé e di quelli della sua generazione che erano bambini durante la
guerra, dice: “Ora, nel cinquantesimo anniversario dell’insurrezione del ghetto
di Varsavia, mi accorsi che non erano scherzi. Ci trovavamo sulla linea del
fronte.” Quello che Edwiga Maurer vuol dire è che sono morti, o sono prossimi a
morire perché molto anziani, tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza atroce
dei campi di sterminio nazista, quelli che potevano dire ‘io c’ero’ mettendo a
zittire chi era riuscito, in qualche maniera, ad evitare il peggio. Come Edwiga
Maurer stessa, nata nel 1932, che era stata nascosta in un convento di suore dove
aveva imparato il catechismo insieme alle bambine cattoliche. Ecco, ora che le
generazione più vecchie sono scomparse, la linea del fronte si è fatta più
vicina; la guerra, che era loro proprietà esclusiva, adesso è dei più giovani,
la testimonianza tocca a loro, è loro responsabilità.
Ma questo fa sì che i
racconti di Edwiga Maurer siano diversi dalla narrativa della memoria. Perché
non si parla mai direttamente della Shoah e dei campi di concentramento, anche
se mai ci viene permesso di dimenticarcene- sono nello sfondo, nello
sferragliare dei treni che passano e di cui si dice, ‘portano via gli ebrei’,
così come si potrebbe dire che trasportano cassette di arance, sono nei braccialetti
che le donne mettono al polso per nascondere il tatuaggio del numero, nei morti
suicidi (e pensiamo a Primo Levi), nell’ossessione per l’aspetto fisico (da che
cosa si riconosce un ebreo? il colore dei capelli è importantissimo), infine
nella sensazione- anzi, nella certezza- che il mondo sia debitore agli ebrei.
ghetto di Varsavia |
Di che cosa il mondo sia debitore agli
ebrei affiora nella serie di racconti ambientati nel campus universitario
americano dove approda il personaggio che riflette, almeno in parte, la
scrittrice stessa. Gli ebrei polacchi si aspettano che gli venga dato il visto
di immigrazione, una borsa di studio, un posto di lavoro, un alloggio. E gli
studenti delle storie che si svolgono a Monaco di Baviera non sono molto
diversi. Sia negli Stati Uniti sia a Monaco formano quasi degli enclavi, come
quelli dei pellerossa d’America o dei neri di Harlem a cui la scrittrice
infatti paragona gli ebrei. A Monaco sono un Gruppo che si ritrova nella mensa
universitaria. Sembrano esistere in quanto Gruppo, tanto che la scrittrice si
domanda che ne sarà di lei il giorno che, uno dopo l’altro, se ne andranno via
tutti. E’ un Gruppo impermeabile a chi ne è fuori- i tedeschi sono tollerati,
non si parla di loro con odio ma i rapporti di amicizia sono impensabili.
Nonostante che uno dei professori cerchi insistentemente una ‘riconciliazione’
che non ci può essere. Quando una ragazza del Gruppo sposa un tedesco, viene
esclusa, dimenticata.
I primi tre racconti parlano della bambina che era Jadwiga, rifugiata
dapprima a Cracovia già Judenfrei,
ripulita dagli ebrei che una degli insegnanti definisce ‘un corpo estraneo’, e
poi nel convento in Slovacchia. C’è una compagna di classe di Jadwiga che pone
domande scomode: che senso ha imparare i dogmi della religione quando, nel bel
mezzo di una guerra atroce, la Chiesa non fa assolutamente nulla? E tuttavia ci
sono un vescovo e un sacerdote che aiutano gli ebrei; c’è un polacco che si dà
da fare per farli passare in Ungheria…
Ovunque c’è, non vista, la morte: gli ebrei
che le sono sfuggiti possono anche pensare che non verranno più afferrati dalle
sue grinfie e invece no. Come nella variante polacca della Morte che aspetta il
giardiniere a Samarcanda, la Morte può coglierti a Roma- e il fuggitivo della
storia non sapeva che la taverna in cui alloggiava si chiamava, appunto,
‘Roma’.
Semplicità e profondità, realismo quotidiano e lampi di poesia in queste
storie raccontate da una ‘controfigura’ che ha raccolto la torcia della
memoria.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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