Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA
Ruth Ware, “Il gioco bugiardo”
Ed. Corbaccio, trad. V. Perna e
Sara Puggioni, pagg. 426, Euro 17,90
“Il gioco bugiardo”, o meglio, il
gioco di dire bugie e accumula più punti chi spara la balla più grossa e
riesce a farsi prendere sul serio. Un gioco che può essere molto dannoso,
nonché crudele per gli altri. Una regola fondamentale: non mentire mai fra di
loro, le quattro amiche che si sono incontrate quando avevano quindici anni a
Salton House, un collegio femminile a sud di Londra. Kate, l’artista, Thea, la
più ‘fuori di testa’ già espulsa da parecchie scuole, Fatima i cui genitori
stanno facendo un anno di volontariato in Pakistan, Isa Wilde la cui madre sta
morendo di cancro. Bugie vuol dire ambiguità: ecco, l’atmosfera del libro è
basata sull’ambiguità, che poi è anche la cifra stilistica di Ruth Ware di cui
abbiamo già letto “La donna della cabina numero 10”, su una tensione
narrativa che posa sui quesiti- che cosa è successo quell’anno, di così grave
da far sì che le ragazze abbiano lasciato la scuola all’improvviso? Qualcosa
che adesso, a diciassette anni di distanza, riaffiora (letteralmente) e Kate
(l’unica che viva vicino ancora vicino al collegio) abbia mandato uno stringato
messaggio alle amiche, un grido di aiuto, quasi una parola d’ordine che
contiene l’imperativo di accorrere subito: “ho bisogno di voi”.
Una dopo l’altra arrivano a Salten, da Kate
che abita al Mill, un mulino ad acqua dove già abitava suo padre (un pittore
che insegnava arte al collegio), un edificio di grande fascino decadente che
ora è più che mai in cattive condizioni e sta sprofondando, a mano a mano che
il mare si mangia la costa e la marea avanza verso l’interno, tanto che a volte
si arriva a guado alla soglia del Mill, tanto che spesso salta la luce, quando
l’acqua bagna i cavi. Arriva Isa con la sua bambina di sei mesi. Arriva Fatima
che ora indossa l’hijab ed è una musulmana osservante. Arriva Thea, magrissima
e alcol dipendente. E’ successo che è affiorato un osso umano dalla terra che
ora è rosicchiata dal mare.
La trama si srotola tra passato e presente-
allora ognuna delle quattro aveva un qualche problema, la sorte le aveva
ravvicinate, l’amicizia era diventata uno di quei sentimenti che si radicano
profondamente ad un’età in cui solo l’amicizia può salvare dall’assenza di una
famiglia. Il padre di Kate, l’artista Ambrose, era stato una figura di padre
sostitutivo per tutte loro e per Luc, il fratellastro di Kate. Meglio di un
vero padre perché dava affetto e ospitalità nei fine settimana al Mill e non
imponeva regole. Nei ricordi del passato Ambrose è circondato da un alone di
fascino, con tutti quegli schizzi che faceva di loro quattro, più o meno
vestite. Adesso, nel presente, è un fantasma circondato dal mistero della sua
scomparsa su cui circolano voci maligne e accusatorie in paese. Come mai sono
tornate proprio ora le tre amiche di Kate? Per una cena di ex alunne a Salten
House? E perché per la prima volta prendevano parte ad una cena dopo tutti
quegli anni?
La vicenda è incalzante, la
verità ci viene detta a piccoli bocconi, viene smentita, viene corretta e
ricorretta. Dubitiamo, insieme alle amiche. Una di loro sta ancora facendo il
gioco delle bugie? Tutte loro hanno fatto il gioco, con le persone a loro
vicine, per diciassette anni? La rivelazione avviene come un’esplosione in un
finale da tragedia. E noi ci interroghiamo sul valore dell’amicizia e su quale
sia il limite che neppure l’amicizia dovrebbe chiederci di superare.
Del ‘giallo’ psicologico di Ruth Ware ammiriamo la finezza e l’eleganza,
prima di tutto. Quel certo non so che di classico che ci fa pensare ad Agatha
Christie- pochi personaggi, ben caratterizzati. Piace l’alternanza di tempi
della trama, la descrizione dell’instaurarsi del legame tra le amiche,
l’autoanalisi di Isa che è il ‘punto di vista’ della vicenda. Piacciono poi due
personaggi che si impongono costantemente alla nostra attenzione: il Mill e la
piccola Freya, la bambina di Isa. Questa, con i suoi occhioni azzurri, la sua
voracità che identifica la perfetta felicità con il seno della mamma, sembra
essere il simbolo dell’innocenza perduta. E il Mill, con la natura
straordinaria e mutevole che lo
circonda, soggetto ideale per qualunque pittore, diventa invece simbolo di un
passato in cui c’è qualcosa di marcio sotto l’alone di bellezza, qualcosa che
deve essere radicalmente rimosso.
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net come l'intervista che seguirà.
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