Voci da mondi diversi. America Latina
autobiografia
FRESCO DI LETTURA
Jorge Barón Biza, “Il
deserto”
Ed.
La Nuova Frontiera, trad. G. Maneri, pagg. 251, Euro 14,45
E’ un libro di difficile lettura, “Il deserto” dell’argentino Jorge Barón
Biza. Perché è un libro doloroso,
tanto più perché è autobiografico,
anche se lo scrittore avrebbe voluto che i lettori non tenessero conto dei
legami familiari che lo univano ai personaggi. E’ una storia che segue due
filoni narrativi in cui i protagonisti sono due, sua madre Eligia e lui stesso. Un filone segue il calvario della
madre, l’altro il declino del figlio.
Tutto inizia con una tragedia non da poco:
suo padre, una personalità eccentrica che aveva eretto un mausoleo di 70 metri
di altezza per la prima moglie, che era di vent’anni più vecchio della seconda
moglie Eligia, che aveva avuto con lei un rapporto fatto di separazioni e
riunioni, di divorzi e riconciliazioni, le aveva gettato in faccia dell’acido durante l’ultimo incontro e si era suicidato il giorno dopo. Dopo i
primi soccorsi ricevuti in Argentina, madre e figlio erano partiti per Milano
dove operava il miglior chirurgo estetico del mondo, un dottore che avrebbe
proceduto prima distruggendo quanto già fatto e poi ricostruendo. Erano gli anni ‘60, lui, il figlio, era poco
più che un ragazzo, ma già beveva smodatamente, come suo padre.
Eligia,
la madre, era una studiosa, una professoressa, impegnata politicamente, peronista nonostante suo padre fosse
del partito avverso, una donna dalla tempra eccezionale che mostra, nei tre
anni di cure, un coraggio e una
sopportazione straordinari. Lui- Mario nel romanzo- beve ancora di più per
reggere davanti allo scempio del viso della madre. Niente ci viene risparmiato,
nelle due narrative, intramezzate da stralci di saggi politici, storie del
passato, scritti del padre che era stato un famoso romanziere. Sembra che Mario
guardi con distacco il viso della madre, quasi con interesse scientifico quella
che era stata una faccia ed ora è scarnificata, più simile ad un teschio che ad un volto, e invece c’è una pena
profonda, un dolore che cerca di tenere a bada. Mario registra le frasi dei
medici ma anche le parole di spavento, gli sguardi inorriditi di chi gli capita
di incontrare nei corridoi dell’ospedale, per non dire dei riguardi esagerati
verso la donna durante il viaggio in aereo dall’Argentina, dettati in realtà
dal timore che la sua vista possa gettare nel disagio gli altri passeggeri. La
serenità altrui va protetta, la pietas viene dopo, quando si è al riparo.
Non
ci viene risparmiato neppure l’abbrutimento
di Mario, le scene di degradazione totale in compagnia di una prostituta
con cui finisce per intrecciare una relazione, la ricerca di qualcosa da bere,
non importa che cosa sia, purché sia alcol. Per essere più di una volta
raccolto su un marciapiede, incapace di reggersi in piedi. Mario ha due vite, accanto al letto in clinica per aiutare la madre
di giorno, nei bar di Milano con compagnie ambigue di notte. Abnegazione e
pazienza di giorno, nebbia alcolica e annullamento della coscienza di notte.
E
intanto emergono ricordi del coinvolgimento politico di Eligia, del carcere per
lei e dell’allontanamento del figlio, degli anni di Perón (sempre chiamato ‘il
Generale’) e soprattutto della bionda Evita,
la donna che, nata in un misero villaggio della Pampa, era stata accolta come
una regina dal Generalissimo Franco nel 1947, venerata come una santa dal
popolo dopo la morte per tumore, diventata un mito. Una delle voci che
correvano su di lei era che il suo corpo
fosse stato mummificato e, sottilmente, siamo portati a identificare Evita con Eligia, la mummia eternamente impassibile
con la donna il cui volto ha perso qualunque espressione, quella che era stata
una leggenda vivente, la donna senza cultura che si era battuta per i diritti
dei poveri e dei lavoratori e la professoressa che aveva lottato per allargare
l’alfabetismo dei diseredati. Due donne con una tragica fine.
Nessun commento:
Posta un commento