Voci da mondi diversi. Corea
Ed.
Salani, trad. Claudia Soddu, pagg. 272, Euro 18,00
Una signora sulla settantina, Yeongsuk
Yeom, è in treno quando si accorge che nella sua borsa non c’è più la pochette
rosa con tutti i suoi documenti. Cerca di ricostruire i suoi movimenti, ma non
ha idea di dove possa averla smarrita o dove le possa essere stata rubata. Poi
squilla il suo cellulare. Una chiamata da una cabina telefonica. Una voce roca
come di ‘un orso uscito dal letargo’ le chiede il nome, le dice di aver
ritrovato il suo portafoglio e di essere alla stazione centrale di Seoul.
Inizia così, con l’incontro tra una anziana professoressa in pensione e un senza tetto alcolizzato, il romanzo dello scrittore coreano Ho-Yeon Kim. È una storia di rinascita, di generosità e di altruismo che insegna che la vita va sempre in qualche modo avanti per un motivo, che ‘non siamo fatti per cadere nei fiumi, ma per attraversarli’. Che ‘un ponte è una strada, non un dirupo da cui saltare’.
Yeongsuk Yeom ritorna in possesso della sua
pochette rosa ed è talmente colpita dalla radicata onestà del barbone, che addirittura
si azzuffa con dei ladruncoli che cercano di impossessarsi della borsettina,
che finisce per dirgli che può venire ogni giorno nel suo minimarket e
scegliere una confezione di un piatto pronto da mangiare. Perché la signora
Yeom gestisce un piccolo minimarket che è sempre in perdita da quando hanno
aperto altri supermercati nella zona. Per lei, a cui basterebbero i soldi della
pensione, più che un investimento è un modo per restare attiva e per dare uno
stipendio ai suoi dipendenti.
La signora Yeom e il senzatetto sono i due protagonisti del romanzo, attorniati da altri personaggi- le due commesse del minimarket, il figlio della signora Yeom (che insiste perché lei venda il negozio e dia a lui i soldi), quello della più anziana delle commesse (che passa tutto il tempo chiuso nella sua stanza a fare videogiochi), clienti fissi o occasionali. L’attenzione però è sulla professoressa in pensione e sull’uomo che sembra un orso, che ha dimenticato il suo passato, che non ricorda neppure come si chiama, che sembra aver addirittura dimenticato come si faccia a parlare. Finisce per balbettare che il suo nome è ‘Dokko’, che vuol dire ‘solo’.
Tutto incomincia da un piccolo atto di gratitudine e di compassione che porta, tuttavia, molto lontano. Qualcosa si risveglia dentro Dokko, quando Yeongsuk mostra di aver fiducia in lui e gli offre addirittura un impiego come guardiano notturno, vincendo la perplessità e, sì, l’ostilità delle due commesse. Le quali dovranno ricredersi. E l’attenzione si sposta su Dokko, sulla sua maniera di approcciare i clienti, quasi sapesse per istinto come aiutare le persone sole, offrendo loro cauti consigli, bevendo tè di mais con chi si ubriaca di soju (dopotutto lui è un esperto, anche lui ha dovuto disintossicarsi), accendendo una stufetta per chi si siede al tavolino fuori del minimarket. E non si rende neppure conto di aver offerto lo spunto per un’opera teatrale ad una scrittrice in crisi di ispirazione.
Il finale è catartico e squarcia il velo sul
passato di Dokko- la realtà deve essere affrontata, così come la colpa e il
rimorso della coscienza.
È
singolare come arrivino tutti dall’Oriente i romanzi che ruotano intorno a
piccoli luoghi pubblici- può essere un caffè, una pasticceria, un ristorantino,
una libreria di quartiere, un minimarket nel libro di Ho-Yeon. Sono libri che
nascondono una grande solitudine dietro ai personaggi ed è sufficiente un incontro
in uno di questi luoghi (sempre piccoli, a misura d’uomo così che sembrano
circondare d’affetto chi vi entra) per dare il via ad un cambiamento di vita,
ad un atto riparatorio, ad uno speranza ritrovata. Sono un poco mielosi, questi
romanzi ‘buonisti’ che sostituiscono il genere ‘rosa’, ma, se scritti bene come
quello di Ho-Yeon Kim, sono una gradevole lettura. Senza dire quello che ci
insegnano sulla vita in Corea, sui cibi e sulle bevande, sugli stupefacenti
alloggi economici per studenti, i goshiwon,
che misurano in media 4 mq.
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