Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
intervista
L’interprete è il suo primo romanzo, ho
letto che, in precedenza, aveva scritto dei racconti. Anche i racconti avevano
un’ambientazione storica? come ha deciso di passare alla forma lunga del
romanzo?
No, i racconti non avevano un’ambientazione
storica, ma quello che ha vinto il premio per esordienti, “Notturno berlinese”,
aveva un’ambientazione tedesca- una sorta di filo rosso che lo unisce al
romanzo “L’interprete”. Amo la cultura tedesca, conosco bene il tedesco che uso
nel mio lavoro. Per motivi di studio e di lavoro sono molto legata al mondo
tedesco e quindi la decisione di ambientare il romanzo nella Verona del 1943
sotto l’occupazione tedesca nasce dall’interesse per i rapporti tra Italia e
Germania. D’altra parte a Verona permane il legame con il mondo tedesco- siamo
vicini al lago di Garda, ci sono molti turisti tedeschi così come ci sono molte
aziende tedesche che hanno scelto Verona come base. Mi appassionava esplorare
che cosa è successo quando i tedeschi sono arrivati qui durante la guerra.
Ci può raccontare di più della vicenda
originale che è dietro quella del romanzo?
La storia originale è arrivata come testimonianza da parte del signore che lavora nel palazzo dove sono ambientate le vicende e dove, allora, c’era la sede amministrativa e operativa del comando tedesco. Oggi il palazzo è sede di studi professionali e questo signore, che lavora in portineria, mi ha fermato e mi ha detto che già suo nonno lavorava in portineria durante l’occupazione tedesca, raccontandomi poi della vita che brulicava intorno a quel palazzo. Mi ha mostrato poi la planimetria del palazzo che lui stesso aveva disegnato basandosi sui ricordi del nonno, suddividendo le stanze secondo l’uso che ne era stato fatto- gli uffici per la Gestapo, le stanze per i prigionieri politici, quelle per gli interrogatori. Mi ha regalato quella planimetria dicendo che lui non era capace di usarla per scrivere una storia ma forse poteva dare un’ispirazione a me. Poi è iniziato per me il tempo del lavoro di ricerca storica perché volevo che fosse un romanzo storico che si attenesse ai fatti. Volevo un contesto documentato e fedele. Ho fatto un grande lavoro alla Biblioteca Civica, consultando quotidiani dell’epoca, saggi, libri, materiali in tedesco che parlavano dell’occupazione dal ‘loro’ punto di vista. Mi sono documentata anche sulle biografie degli ufficiali che erano al Comando di Verona. Per i tedeschi era una missione importante, dovevano tener salda la roccaforte dell’Italia settentrionale, perciò gli ufficiali erano figure iperqualificate che si erano distinte in altre operazioni. Erano persone con un alto livello di istruzione e però si erano distinte anche per operazioni di massacro.
Verona nel 1943, Verona durante la
guerra: ha sofferto molto Verona durante la seconda guerra mondiale?
Sì, l’occupazione tedesca è stata molto sofferta a
Verona, perché è arrivata in un momento difficile, dopo due anni di guerra. In
più i tedeschi arrivarono in gran numero- dobbiamo ricordare che Verona era una
piccola città di provincia. Quella dei tedeschi era, numericamente,
un’operazione massiccia e, dopo l’intensificarsi dei bombardamenti, nel 1944,
la città andò svuotandosi: chi poteva lasciava la città rifugiandosi da parenti
in campagna, se li avevano. Il numero dei tedeschi era, quindi, preponderante.
Basta dire che i cartelli oppure i menù esposti fuori dai ristoranti erano in
due lingue- adesso è normale ma allora non lo era affatto ed è un segnale
importante. L’occupazione aveva comportato anche la confisca delle abitazioni,
degli edifici e degli alberghi adibiti dai tedeschi ad abitazioni. Tuttavia,
leggendo i quotidiani dell’epoca, sembra che in città l’occupazione abbia avuto
luogo senza grandi spargimenti di sangue. Erano prepotenti ma abbastanza
corretti. Nella zona pedemontana, invece, dove era attiva la resistenza
partigiana, ci furono eventi drammatici. Quelli che vissero in quel tempo mi
hanno confermato queste impressioni: c’era una cappa di terrore sulla città e
la popolazione non ha risposto in maniera violenta, ha subito.
Parliamo dei
personaggi del romanzo- il preside Zorzi, sua figlia Delia, l’Hauptsturmführer von Peters, il
capitano Hauer. Nessuno dei due tedeschi viene rappresentato come terribilmente
‘cattivo’, di certo proviamo più disprezzo per il preside Zorzi che per loro:
era sua intenzione accentuare, in certo qual modo, la colpevolezza degli
italiani collaborazionisti?
Sicuramente il grande tema del romanzo è la zona grigia, la zona in cui si muove la gente che vuole sopravvivere a questo momento di pericolo. La maggior parte galleggia cercando di tenersi in piedi. E sì, Zorzi è più colpevole dei tedeschi. Loro hanno degli ordini e poi l’obbedienza è qualcosa di radicato nella loro cultura, sono cattivi, fastidiosi e sgradevoli ma Zorzi è uno che fa il Male con convinzione. Non sarebbe tenuto a fare il delatore, ad essere un individuo schifoso, potrebbe tenersi nell’ombra e aspettare che la guerra finisca. Zorzi crede nella causa nazi-fascista, è più colpevole perché agisce di sua volontà. Per gli ufficiali ribellarsi sarebbe stato alto tradimento. Il tema del libro è questo: che cosa ha fatto chi era libero di scegliere, chi poteva fare qualcosa? Zorzi è il personaggio più negativo del romanzo.
Hauer
è un uomo di sangue freddo, non ha eccessi di sadismo ma è senza scrupoli, ha
un ruolo pesante sulle spalle, è la banalità del male, per dirlo con le parole
di Hannah Arendt. È un burocrate che deve svolgere il suo dovere.
Ho
rispettato le biografie storiche degli ufficiali veramente in carica a Verona,
cambiando però il loro nome.
Io stessa ho provato più simpatia per
von Peters che per Delia Zorzi che mi è sembrata una persona ambigua. È forse
essere sempre stata sotto il dominio del padre a renderla incapace di una
posizione decisa?
Delia è una donna del suo tempo. Mia nonna mi parla dei rapporti con suo padre come rapporti di sudditanza, c’era l’idea della centralità della famiglia in cui la donna era la fattrice. Delia ha un padre fascista, autoritario e sprezzante, lei ha 23 anni ed è sempre vissuta sotto il suo tacco, è rimasta presto senza la madre che avrebbe potuto ammorbidire questa atmosfera. Invece è schiacciata dal padre che la lancia nel mondo offrendola ai tedeschi come traduttrice. Era privilegiata perché aveva potuto frequentare l’università, cosa rara per i tempi, ma aveva sempre vissuto fra le quattro mura di casa. Ha paura, non capisce che cosa sta facendo e il suo ruolo rispetta questa ambiguità: un interprete si muove sul crinale tra due mondi. Lei traduce in maniera asettica, le interessa solo se c’è qualcosa che può riguardare il fratello. Traduce e dimentica, non si fa domande. L’obiettivo è sopravvivere e salvare il fratello. È ambigua, è un’antieroina, non suscita la solidarietà femminile. Però Delia compie un percorso: alla fine la sua ignavia è chiamata a un bivio, alla fine sceglie e sceglie di saltare nel vuoto, di assumere il rischio. Disegna il proprio destino, ma per due terzi del romanzo subisce, si sporca le mani di sangue per salvare la pelle. Tuttavia è molto umana.
Non ci viene detto apertamente, ma il
fatto che von Peters fosse nell’Einsatzgruppe sul fronte orientale ci lascia
indovinare di quali colpe si sia macchiato. Eppure il suo palese tormento fa di
lui, anche se non pienamente, un ‘nazista buono’- voleva rappresentarlo così?
No, non volevo rappresentarlo come ‘il nazista buono’. Il
dipingerlo così viene dal mio rapporto con i tedeschi che ho conosciuto. Hanno
pudore della sofferenza, ma poi raccontano di quello che hanno vissuto durante
e dopo la guerra- terribile. Le prime case da cui hanno portato via i disabili
furono quelle tedesche, i primi ebrei deportati furono tedeschi, hanno subito
il nazismo. La follia collettiva ha fatto sì che subissero. Anche la fase
post-bellica fu terribile. I pochi che sono tornati a piedi dalla Russia spesso
non furono riconosciuti, molti si diedero all’alcolismo, molti si suicidarono,
i più non riuscirono a rifarsi una vita. Subirono un prezzo altissimo come
vinti.
Quella di von Peters è la storia di un uomo
che prima faceva tutt’altro, era ricercatore universitario, come molti altri
era arruolato nella Wehrmacht e poi era finito nelle Waffen-SS. Deve vivere con
dei demoni e questo ce lo rende simpatico in qualche maniera. Sa bene che quello
che sta facendo è il Male assoluto.
C’era veramente l’ospedale psichiatrico
di cui parla nel libro? che fine hanno fatto i pazienti?
Non c’era, c’erano però strutture simili su cui mi sono
documentata per ambientare in modo realistico quella parte del romanzo. Dopo il
1943 i tedeschi inasprirono le misure non solo contro gli ebrei. I tedeschi
cercavano gli ebrei anche negli ospedali psichiatrici dove forse si trovavano
nascosti e, quando non li trovavano, rastrellavano gli altri pazienti là presenti.
campo di Fossoli
Nel libro si parla anche del campo di
concentramento e di transito di Fossoli. Ormai la guerra nel cui ricordo la mia
generazione è cresciuta mi pare così lontana che trovo più che mai importante
parlarne. Pensa che le giovani generazioni, e non solo loro, sappiano del campo
di Fossoli e della risiera di san Sabba? Non pensa che noi italiani tendiamo a
rimuovere la nostra parte di colpa?
Oggi i giovani hanno molti stimoli ma alcuni di loro
hanno anche una sensibilità spiccata e, se stimolati e appassionati, si
interessano. La Storia li avvince.
Come
figlia e nipote di esuli istriani so bene che cosa sia la rimozione del
passato. Il popolo tedesco ha fatto un lavoro incredibile per ricucire la
memoria della Storia in comune, ha espiato una colpa collettiva. Da noi questo
non è stato fatto. Non abbiamo una visione di insieme, dove si tenga conto dei
prezzi della guerra. Abbiamo ancora da fare, e non so se si farà mai, un lavoro
serio sulla memoria collettiva.
Sta già scrivendo un altro romanzo? Sarà
ancora un romanzo di ambientazione storica?
Ho in mente varie possibilità ma non sto ancora scrivendo
niente. I temi possibili sono tanti, alcuni sono di ambientazione
contemporanea.


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