Voci da mondi diversi. Sud Africa
love story
Shubnum Khan, “Lo spirito aspetta cent’anni”
Ed.
Neri Pozza, trad. Simona Fefé, pagg. 320, Euro 19,00
Akbar Manzil. Una casa nel Natal, provincia
costiera del Sudafrica. Ecco un’altra casa che ricorderemo, una casa come
Istana, come Howards End, come Tara, come Manderley, come tutte le case
protagoniste di romanzi su cui mi piacerebbe tenere un corso di letteratura.
Un centinaio di anni fa Akbar Manzil era grandiosa, in alto sulla collina da cui dominava la costa, dove tutti potevano vederla. Adesso è il fantasma di quello che era, è una casa infestata dai fantasmi o meglio dai ‘geni’, le entità soprannaturali intermedie fra il mondo angelico e quello umano della cultura araba- da uno spirito, nella fattispecie, che si aggira per le stanze fatiscenti, che si ferma davanti ad una porta chiusa a chiave nell’ala est. Eppure, quando Bilal vi arriva, chiede alla figlia Sana che è con lui se pensa che questa sarà per loro ‘casa’, se alla mamma sarebbe piaciuta. La casa è stata divisa in miniappartamenti abitati da persone che sono andate alla deriva nella loro vita- un responsabile che si fa chiamare Dottore, due donne che litigano tra di loro di continuo, una ex concertista, una domestica che parla da sola.
Sana è sperduta, tormentata dai ricordi di
una madre che non la amava, di una sorella siamese che non era sopravvissuta
all’intervento che le aveva separate e che continua ad essere al suo fianco, a
parlarle, a stuzzicarla, a provocarla, quasi un altro djinn niente affatto benevolo che la invita a raggiungerla.
Sana si aggira per la casa, arriva davanti
alla porta chiusa, riesce ad entrare, spolvera, la mette in ordine, trova dei
diari.
E
allora la narrazione prosegue su due piani temporali, le protagoniste diventano
due, la ragazzina orfana che si chiede che cosa è l’amore e la giovane donna
che scopre che cosa è l’amore, suo malgrado perché proprio non avrebbe voluto
sposare Akbar e diventare la sua seconda moglie. Sana e Meena.
La storia di Meena acquista subito un rilievo maggiore ed è più appassionante di quella di Sana. Inizia con quella di Akbar, uomo di fascino e dalla mente curiosa, che porta la moglie dall’India a vivere in Sudafrica, fa costruire la grande casa, fa arrivare animali esotici per un suo zoo privato e un domatore che si prenda cura di loro. Che cosa ha in comune con la moglie che scimmiotta la moda inglese, vanta la sua ascendenza moghul e non gli presta ascolto quando lui le legge le poesie che ama? Quando Akbar si innamora di Meena, una semplice operaia, né la moglie né la madre di Akbar pensano che possa essere più che un divertimento. E invece…
Amore e tenerezza che suscitano gelosia
folle e crudeltà, sgarbi e aperto disprezzo che contagiano anche i due bambini
quando nasce il figlio dell’amore di Akbar e Meena, che portano ad un atto di
inaudita malvagità. Non finisce qui, sappiamo fin dall’inizio che se la casa è
stata abbandonata, se è in rovina, è perché è stata teatro di qualcosa di
tragico.
Il finale è a sorpresa, perché ricongiunge
i due filoni narrativi e alla tragedia del passato ne corrisponde un’altra nel
presente.
Quella di Shubnum Khan è una scrittura
lussureggiante, incredibilmente poetica, capace di restituirci colori e suoni,
luci e ombre, di rendere credibile- in un personalissimo ‘realismo magico’
molto poetico- la presenza dello spirito malato d’amore che ha taciuto per
cento anni e quello di una gemella uscita di scena troppo presto. E poi il suo
romanzo è una bellissima e insolita storia d’amore.
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