vento del Nord
sagaRoy Jacobsen, “Mare bianco”
Ed.
Iperborea, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg.250, Euro 17,50
1944. La guerra, sempre più feroce, si sta avviando alla fine, anche se
nessuno lo sa, anche se i tedeschi pensano ancora di vincere. La Norvegia è
occupata dai nazisti. Nell’isola di Barrøy, a sud delle Lofoten, è rimasta solo
Ingrid.
“Mare bianco”, secondo volume della saga
dei Barrøy iniziata con “Gli invisibili”, incomincia con le ore di duro lavoro
di Ingrid a sfilettare il pesce ed è difficile dire se il ‘mare bianco’ del
titolo si riferisca solo al mare, bianco di spuma di onde, bianco di neve che
cade e diventa tutt’uno con l’acqua, o anche allo scenario che si vede fuori
della finestra della casa di Ingrid- bianca la terra nel lungo inverno, bianco
il cielo, bianca l’aria. Come nel romanzo precedente è questo paesaggio nello
stesso tempo affascinante e agghiacciante il vero protagonista, quello che
influenza le azioni e i pensieri dei personaggi, il loro stesso carattere,
stroncandone la voglia di vivere o rafforzandone la resilienza.
Ingrid è forte e decisa, ha già trentacinque anni, sente la mancanza dei famigliari lontani ma ne accantona il pensiero, il suo segreto per tirare avanti è nella ripetizione dei gesti e delle occupazione giornaliere, quasi un rito che deve essere osservato.
Poi accade qualcosa. In questa isola fatta
di freddo, neve, solitudine e incontri occasionali, irrompe il mondo esterno,
si fa breccia la realtà della guerra nella sua forma peggiore. Toccano terra
sull’isola non uomini ma cadaveri trasportati dalle correnti. È affondata una
nave al largo- una nave di prigionieri? Di che nazionalità? Impossibile dirlo
dalle divise, potrebbero non essere quelle giuste. Tedeschi? Russi? Entrambi? E
comunque almeno uno viene gettato a riva gravemente ferito ma ancora vivo.
La storia, che poi è una storia di amore, di Ingrid con l’ingegnere di Leningrado è come un piccolo gioiello incastonato nel romanzo. Lei lo salva, lo trascina in casa, gli cura le ferite e le ustioni, lo nutre con la pazienza con cui si nutre un neonato, vince la diffidenza e la paura di lui, lo nasconde. Da una comprensione che passa attraverso i gesti procedono allo scambio titubante di parole, ‘io mi chiamo Alexander’, ‘io mi chiamo Ingrid’, e poi, quando fa freddo, quando sembra di essere gli unici due esseri viventi sulla terra (e lo sono, sull’isola), che altro resta da fare, se non l’amore?
Prima i morti, poi il ferito, poi i vivi, è
una piccola invasione che si rovescia sulle isole. Sono gli sfollati dal
Finnmark, gente scacciata dalla sua terra che spera di ritornare ‘a casa’
quando la tempesta sarà passata, alla fine della guerra. Famiglie in cui manca
il padre, orfani, vecchi, saranno tutti alloggiati in qualche maniera. È il
1944, potrebbe essere oggi.
La fine è sospesa, la fine non finisce, c’è
la prima tempesta d’inverno in arrivo. Chissà.
Con un passo più lento di quello de “Gli
invisibili”, con lo stile poetico che lo caratterizza, capace di far parlare il
silenzio, Roy Jacobsen ci dipinge questo quadro bianco, così diverso da quello
azzurro che noi abbiamo davanti agli occhi, ci parla delle piccole storie di
gente la cui tempra è foggiata dal clima in cui vive e della grande Storia che
ha colpito anche loro, che non ha risparmiato nessuno, quasi andasse in cerca
di ogni sua vittima, anche nei luoghi più isolati.
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