Voci da mondi diversi. Paesi Bassi
Dido Michielsen, “L’isola della memoria”
Ed.
Nord, trad. A. Storti, pagg. 352, Euro 19,00
I primi coloni olandesi erano arrivati nel
1600 nell’isola di Giava. Come per tutti i colonizzatori, ‘loro’, i bianchi, i
padroni, erano superiori agli indigeni, considerati poco più che selvaggi con
nessun riguardo per la loro cultura, diversa da quella del mondo occidentale e
incomprensibile per i nuovi arrivati.
Se è impossibile negare i progressi portati dai colonizzatori, è altrettanto impossibile non riconoscere i lati negativi, troppo spesso trascurati, anzi peggio, neppure considerati, soprattutto per quello che riguarda i loro rapporti con le donne. Il clima di Giava era impietoso, il viaggio, prima dell’apertura del canale di Suez, durava anche tre mesi, non era immaginabile che le donne olandesi raggiungessero i loro uomini. E la soluzione pareva normalissima- gli olandesi si sceglievano una donna (in genere una ragazza molto giovane) che faceva loro da moglie, da madre dei loro figli, da governante, da serva. Si chiamavano nyai, queste donne che erano amanti di uno straniero, e che erano un gradino più su delle munci, amanti di un militare. In genere erano belle, di una bellezza esotica, e si illudevano- tutte- che il loro uomo dalla carnagione rosea e dagli strani capelli gialli le avrebbe sposate, avrebbe riconosciuto i loro figli meticci, indoeuropei. La realtà, poi, era devastante. Spesso, troppo spesso, dovevano abbandonare i figli che non venivano riconosciuti dai padri ma a cui veniva dato un cognome simile, forse riuscivano a diventare la nyai di un altro tuan (se erano ancora abbastanza giovani), per lo più vivevano nell’indigenza, respinte dalla famiglia di origine.
Dido Michielsen, nata ad Amersfoort nei Paesi Bassi, è lei stessa discendente di una nyai ed è parzialmente la storia della sua trisavola che racconta in questo libro, il suo primo romanzo. Il racconto della protagonista è filtrato attraverso quello di un’altra donna che lo scrive in olandese e che diventa il suo strumento in un gioco di rovesciamento di ruoli. Perché la protagonista, nata nel 1850, si chiama Piranti, che in giavanese significa ‘strumento’- sua madre forse sperava che lei fosse uno strumento per migliorare la loro vita? Quando, a sedici anni, Piranti rifiuta un matrimonio combinato, fugge di casa ed è lei ad iniziare il corteggiamento di un capitano olandese di ottima famiglia. Lui le cambierà il nome, chiamandola Isah (un chiaro segno di supremazia e noi pensiamo a Venerdì di Robinson Crusoe), lei lo chiamerà Gey, il primo dei suoi due cognomi.
Gey è gentile, la tratta bene, sembra che
la ami. Isah fa di tutto per rendergli la vita confortevole, dal preparargli i
piatti europei che lui predilige al coltivare il giardino. Quando resta
incinta, lui non la fa abortire, né la prima né la seconda volta, anche se non
riconosce la paternità delle figlie. Isah si illude. Vuole credere che sia per
sempre. Finché deve risvegliarsi dal sogno. Gey è come tutti gli altri uomini,
forse peggio ancora- l’ha usata, ora la sostituirà con una donna del suo paese
e la getterà via. E le bambine? Non è un problema suo.
Non è solo solidarietà femminile che ci
unisce a Isah. Non è solo una profonda compassione per quello che ha passato e
che deve passare, per un’illusione perduta e per una fiducia mal riposta. È
ammirazione per la tempra di questa donna capace di grande amore, per un uomo
che non la merita e che noi disprezziamo insieme a lei, e soprattutto per le
figlie. Perché non c’è amore più grande di quello che si manifesta rinunciando
al proprio legame con l’essere amato per la sua felicità e il suo bene.
Il racconto di Isah procede- Isah ha sessant’anni quando affida la sua storia a Canting che la trascrive, dando voce a tutte le nyai che vivono nell’ombra, che non sono mai esistite, anonime madri di migliaia di indo-europeanen dalla pelle più chiara della loro.
“Perdonami,
Isah, ma la tua storia dà voce anche a tutte quelle donne. Pubblicarla è un
modo per dare un senso alla tua vita, anche se è già finita.”
Una storia commovente e appassionante, un
affresco storico che affiora a poco a poco come da uno dei tessuti batik a cui
lavorava la madre di Isah.
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