giovedì 18 ottobre 2018

Preeta Samarasan, Tutto il giorno è sera ed. 2010

                                                        Voci da mondi diversi. Asia
           storia di famiglia
           il libro ritrovato

Preeta Samarasan, Tutto il giorno è sera
Ed. Einaudi, trad. Anna Nadotti e Federica Oddera, pagg. 398, Euro 21,00

Fine agosto e inizio settembre 1980. Due ragazze partono dalla Grande Casa, ad Ipoh, in Malesia. Uma andrà a studiare in America; la serva Chellam torna in disgrazia a casa di suo padre. Chi ha spintonato la vecchia nonna, causandone la morte? La piccola Aasha ha visto ma mente: perché? Che cosa ha visto lo zio Sala-da-ballo, prima di partire precipitosamente? Dove passa il tempo Appa, che a volte non torna neppure a dormire a casa? Segreti, segreti, sullo sfondo di una Malesia che è pacifica solo in superficie.

 INTERVISTA A PREETA SAMARASAN  


      In inglese, per parlare di qualcuno che nasconde dei segreti (e quasi mai i segreti sono innocenti), si dice che ha uno scheletro nell’armadio. Saltano fuori uno dopo l’altro, gli scheletri negli armadi nella famiglia  Rajasekharan, indiani trapiantati a Ipoh, in Malesia. Sembra proprio che tutti abbiano qualcosa di cui vergognarsi e il lettore ne viene a conoscenza a poco a poco, e mai direttamente, inoltrandosi nella lettura di “Tutto il giorno è sera”, bel primo romanzo di Preeta Samarasan.
Il libro è diviso in capitoli e ogni capitolo ha un titolo e una data: Preeta Samarasan eredita la tradizione del romanzo inglese che anticipa nel titolo quanto succederà e specifica il tempo degli eventi. Così osserviamo subito che la trama ha un andamento circolare- inizia il 6 settembre 1980 e termina una settimana prima di quel 6 settembre-, che due capitoli hanno titoli simili, “Ciò che vide Aasha” e “Ciò che vide zio Sala-da-ballo”, che in altri capitoli appaiono le parole “pettegolezzo”, “rivelazioni”. Perché ci sono voci, bisbigli, confidenze, ci sono scene viste e interpretate da chi guarda e non c’è un narratore onnisciente nel romanzo, o meglio, ogni tanto questi appare per raccontarci l’origine di questa famiglia di nuovi ricchi che si sono fatti da sé con il sudore della fronte- prima di tutti del bisnonno che aveva attraversato il golfo del Bengala per fare lo scaricatore del porto in Malesia, riuscendo a far studiare il figlio che aveva ottenuto un posto di impiegato nella compagnia marittima di Ipoh.
Il nipote Raju, infine, era diventato un brillante avvocato: è lui il capofamiglia, di cui si parla per lo più come Appa, cioè papà. Il punto di vista di quello che succede tra il 1979 e il 1980 è quello di una bimba di sei anni, Aasha, ultima figlia di Raju e Vasanthi, Appa e Amma per l’appunto. Una figlia arrivata per caso ben dodici anni dopo la molto amata primogenita Uma e sette anni dopo l’atteso erede maschio Suresh. Una ‘bambina-che-aspetta-scruta-ascolta’ perché è molto sola, adora la sorella maggiore, ne implora l’attenzione. L’amichetta che si è inventata e con cui parla, come fanno spesso i bambini soli, non è di pura fantasia: è il fantasma della bambina che aveva qualche diritto ad abitare nella casa dove ora vive Aasha, perché era la figlia illegittima del proprietario precedente, trascinata in un suicidio-omicidio dalla madre abbandonata. Preeta Samarasan gioca di abilità nel non essere troppo esplicita. In qualche maniera- parlando di Raju e Vasanthi come di Appa e Amma, o dello zio, il fratello del padre, come dello zio Sala-da-ballo, o della domestica come di Chellamserva (tutto in una parola)- noi capiamo di osservare una scena di cui le fila della regia sono tirate dalla bambina, ma non ne siamo mai certi, anche perché a tratti, per ricostruire il passato del corteggiamento dei genitori, o delle rivolte dei malesi contro i cinesi e gli indiani, il punto di vista chiaramente cambia, facendosi più obiettivo, pur se sempre soffuso dell’alone di memoria familiare.

      Due partenze segnano l’inizio e la fine del libro, di due ragazze coetanee e lontanissime nella scala sociale: Uma parte per frequentare l’università in America, ed è una partenza che è pure una fuga- da chi e da che cosa, lo sapremo leggendo; la serva Chellam, assunta per badare alla vecchia e dispotica nonna, lascia la Grande Casa color blu pavone (una casa che, se avesse la voce, potrebbe raccontare tante cose) per ritornare nel suo villaggio- perché se ne vada coperta di ignominia è uno dei tanti segreti del romanzo che ci ricorda, in questo filone, Espiazione di Ian McEwan. E dietro a questi due viaggi, c’è tutta la storia di famiglia, altalenante nel tempo, ricca di aneddoti, di speranze (di Amma), di delusioni (di Amma e di Appa), di insuccessi (di Appa), di piccole crudeltà quotidiane (di Paati, la suocera e nonna), di tradimenti (di Appa). A bilanciare questa narrativa principale, ci sono altre due famiglie, quella d’origine di Amma (con l’egoista madre che si è reclusa in una stanza) e quella di Chellam (con il padre ubriacone che si appropria ogni mese del salario della figlia). Famiglie, famiglie, famiglie. Che cosa scriveva Tolstoj in Anna Karenina a proposito delle famiglie? Che le famiglie felici si assomigliano e che quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo? Nel romanzo di Preeta Samarasan è l’infelicità, diversa per ognuna, che  accomuna le famiglie e dà alle sue figlie il desiderio di scappare?  
  Stilos ha intervistato Preeta Samarasan, invitata alla Fiera del Libro di Torino per partecipare alle iniziative di Lingua Madre, incontri che hanno come valori di riferimento le idee di Memoria, Oralità e Lingua.

Parliamo prima di tutto del bel titolo, Tutto il giorno è sera: da dove viene? E qual è il significato metaforico del titolo riguardo alla storia raccontata nel romanzo?
     Il titolo deriva dalla poesia classica citata nell’epigrafe del romanzo: è una poesia che parla del tempo, di come il tempo sia relativo, di come, quando si aspetta qualcosa o qualcuno, il tempo si allunghi, sembra sempre che ci metta così tanto per arrivare, per verificarsi. E di come sia possibile che l’inizio sembri la fine e la fine sembri l’inizio. E’ questo il significato metaforico per il romanzo: l’idea che il tempo è relativo e l’inizio può parere la fine e viceversa.

Dalla Malesia agli Stati Uniti: sembra che Lei abbia percorso lo stesso itinerario di Uma. Uma è partita per studiare biologia ma intendeva recitare in teatro. Lei ha studiato musicologia ed è diventata scrittrice. Quanto di sé ha messo in Uma?
    Molto poco, in realtà. Negli anni ‘80 e ‘90 per i giovani malesi di origine indiana o cinese era piuttosto comune andare via, andare all’università negli Stati Uniti, perché non avevano la possibilità di studiare in Malesia. Direi che questa è l’unica cosa che ho in comune con Uma. Il personaggio più simile a me è quello della bambina Aasha, non Uma. Naturalmente non ho in comune con Aasha i fatti del romanzo, ma entrambe amiamo guardare gli altri. Anche io sono più una che osserva che una che parla. Ero una bambina che, come Aasha, osservava: naturalmente le circostanze sono interamente inventate, non so come avrei reagito io in quelle circostanze.


Anche Lei appartiene ad una famiglia indiana che è emigrata in Malesia? Qual è la storia della sua famiglia?
     Sì, anche la mia famiglia è di origine indiana. Da parte di mio padre furono i nonni ad emigrare dal sud dell’India. Mentre mio padre cresceva, avevano ancora delle proprietà in India, ora però non abbiamo più nessun contatto con la famiglia in India. I genitori di mia madre, invece, sono nati in Malesia e l’immigrazione risale a molto più tempo indietro: furono i bisnonni di mia madre ad emigrare in Malesia.

Lei descrive un paese multietnico: come è la situazione adesso? E’ ancora un luogo dove la gente di diverse origini e diverse religioni convive pacificamente?
     La Malesia è un luogo dove gente di origine diversa vive insieme, ma non sempre in maniera pacifica. La Malesia non appare nelle notizie perché non accade niente di così violento come in Rwanda, o in Pakistan, o in India. Ma c’è molta tensione sotto la superficie, molta inimicizia fra i diversi gruppi.

Queste persone di origini diverse hanno le stesse opportunità di lavoro?
     Assolutamente no. Il governo favorisce i malesi: i malesi hanno più opportunità degli indiani e dei cinesi. Ecco perché questi vanno a studiare all’estero. La legge favorisce i malesi in tutto, dall’istruzione al lavoro, agli alloggi.

Nel romanzo Lei accenna anche- nella storia del precedente proprietario della Grande Casa- all’indipendenza della Malesia: l’indipendenza dalla Gran Bretagna è stata meno traumatica di quanto lo è stata per l’India?
    E’ stata meno violenta, c’è stata una transizione pacifica all’indipendenza. I problemi sono venuti dopo, perché, dopo, la Malesia è stata incapace di darsi un governo democratico. Quest’anno si festeggeranno i 53 anni di indipendenza dalla Gran Bretagna, ma il paese è ancora incapace di trovare un modo di vivere e di praticare una vera democrazia: non c’è libertà di stampa, né libertà di espressione o di parola. Il passaggio all’indipendenza è stato meno traumatico, ma per evitare la violenza sì è repressa la libertà.


Ha pensato alla lezione di Henry James quando ha adottato la soluzione narrativa del punto di vista?
     No, non pensavo a lui, anzi, è interessante che Lei lo citi. In realtà, se avevo qualcuno in mente, era Virginia Woolf.

E perché scegliere il punto di vista di una bambina di sei anni? Che possibilità narrative Le dava?

     Quando ho iniziato il romanzo, non pensavo a nessuna possibilità. Ho scelto il punto di vista di Aasha perché mi piacciono le storie di bambini messi in situazioni difficili, come il romanzo The go-between di Hartley, ammirato anche da Ian McEwan. Sono attratta dai bambini che cercano di interpretare il mondo degli adulti- anche io ero così. Le possibilità che mi dava il punto di vista di una bambina era che ci si deve mettere ad altezza di bambino e chiedersi la spiegazione di tutto quello che accade. Puoi farti domande su tutto quello che il mondo degli adulti dà per scontato, devi cercare di ricostruire il mondo per un bambino.

Dapprima noi simpatizziamo con Vasanthi e ci sentiamo imbrogliati, proprio come Raju. Ha usato il punto di vista di Raju per mostrarci, all’inizio, una Vasanthi più simpatica? Oppure Vasanthi cambia con il cambiare della sua vita?
     Entrambe le cose: cercavo di mostrare che nessuno è interamente buono o cattivo, tutti abbiamo come delle crepe, tutti abbiamo un lato buono e un lato cattivo, una parte di cui non siamo orgogliosi. Le persone cambiano e c’è sempre un motivo. Quando cerchiamo di capire i comportamenti di una persona e veniamo a conoscere il loro passato, arriviamo a concludere che, va bene, quella persona non ci piace, ma riusciamo a comprendere perché sia diventata così.

Noi lettori siamo altrettanto delusi da Amma e da Appa. Forse il personaggio più coerente e più simpatico si rivela essere lo zio Sala-da-ballo: la lezione da imparare è che non dovremmo mai credere alle apparenze?
     Penso proprio di sì: voglio che il lettore metta in dubbio le apparenze. La bontà e la redenzione giungono da dove non ce le aspettiamo.

Ci resta la curiosità di sapere il futuro di Uma e di Aasha e della serva Chellam: ci sarà un secondo romanzo con questi personaggi?
    No, non ci sarà un secondo romanzo. Non volevo un romanzo come quei brutti film che hanno un finale felice, volevo lasciare il lettore nell’incertezza. Il libro si chiude con Appa che dice che negli Stati Uniti può succedere qualunque cosa, puoi arrivarci in pezzi e l’indomani ritrovarti intero. Questo è quello che Appa vorrebbe credere, ma il lettore non ci crede, non è possibile. E’ Appa che vuole convincersi che è così, perché gli è più difficile credere di aver rovinato tutto per la sua famiglia.

Recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                          

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