Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
seconda guerra mondiale
Simon Sebag Montefiore, “Cieli di fuoco”
Ed.
Corbaccio, pagg. 383, Euro 17,00
Dopo “Sašenka” e “L’amore ai tempi della neve”,
ecco “Cieli di fuoco” a concludere la trilogia di Mosca di Simon Sebag
Montefiore. Una trilogia che è un affresco dell’Unione Sovietica dagli albori
alla fine della seconda guerra mondiale e di cui ogni libro può essere letto
separatamente- solo l’allusione ad alcuni personaggi di cui abbiamo già letto è
il tenue legame dell’uno con l’altro.
Nel 1942 rosseggia di incendi il cielo
sopra l’Unione Sovietica, l’aria riecheggia di spari ed esplosioni mentre
infuria la battaglia per Stalingrado. No, la città che porta il nome del Grande
Padre non può cadere, deve essere difesa fino all’ultimo uomo, non deve finire
in mano ai tedeschi.
Benja
Golden è il protagonista di “Cieli di fuoco”. Ebreo e scrittore, è finito nel
temuto gulag della Kolyma per una delle troppo numerose condanne fasulle,
impartite perché servano di lezione, per seminare il terrore. Se non ci fosse
chi lo aiuta, Benja non sopravvivrebbe alla durezza del lavoro, alla fame, al
gelo della Kolyma. Ed ora si presenta un’insperata via di uscita, una riduzione
della pena. C’è bisogno di uomini per combattere, c’è bisogno di carne da
cannone. Stalin ordina che venga formato un corpo di detenuti da mandare allo
sbaraglio: se spargeranno sangue per la patria, avranno in cambio la libertà.
“Cieli di fuoco” è un romanzo di guerra e
di avventura che si svolge nel brevissimo arco di una settimana o poco più. Benja
Golden e i suoi compagni si trovano presto intrappolati dietro le linee nemiche
e succede di tutto. Cosacchi, partigiani, tedeschi, italiani, traditori,
disertori e doppiogiochisti affollano la scena. Il mite Benja che era certo che
non sarebbe mai stato capace di ammazzare nessuno, si accorge che non può fare
niente di diverso dall’uccidere per non essere ucciso. Si accorge anche che il
bene e il male possono coesistere nella stessa persona, che non ci si può
fidare proprio di nessuno, che un uomo può avere due facce, come il dottore che
gli ha salvato la vita più di una volta e che sembra spinto da puro amore e
altruismo quando fa salire sul suo cavallo la bimba piangente scampata ad un
massacro. E, se è impossibile fare giustizia ai morti negli stermini di massa
(Simon Montefiore non li descrive, ma sappiamo
che di quelli si tratta, quando udiamo le scariche ripetute e ravvicinate,
quando vediamo la terra che sembra muoversi per il ribollire del gas dei
cadaveri), è però possibile almeno vendicare la fine dell’innocenza. In un
certo senso, allora, “Cieli di fuoco” diventa anche un romanzo di crescita
personale, una brutale presa di conoscenza della realtà.
Ci sono anche due storie d’amore nel
romanzo- sono momenti per dimenticare il fuoco della guerra. E sono entrambe
storie destinate a finire male (o quasi). La sedicenne figlia di Stalin si
innamora di uno scrittore sposato e molto più vecchio di lei. Possiamo
indovinare quale sia la reazione di suo padre e che fine faccia l’uomo che ha
osato tanto. E Benja Golden, che aveva amato e perso Sašenka, ha una brevissima storia con
un’infermiera italiana che lo cura quando lui è gravemente ferito e lo aiuta a
fuggire (le scene di sesso in condizioni di estremo pericolo mi sono parse
piuttosto improbabili, a dire il vero).
Si legge bene, “Cieli di fuoco”, anche se
è meno coinvolgente, meno appassionante dei due romanzi precedenti.
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