la prima guerra mondiale
Mark Thompson, “La guerra bianca”- Vita
e morte sul fronte italiano 1915-1919
Ed. il Saggiatore, trad. Piero
Budinich, pagg. 502, Euro 22,00
Ho ancora in mente- e ben chiare- le
illustrazioni della Domenica del Corriere degli anni della Grande Guerra. E’
sui quei grossi volumi fatti rilegare dal nonno e che la mamma dava ai noi
bambini da sfogliare quando eravamo ammalati, che io ho ‘studiato’ la prima
guerra mondiale, prima di studiarla o di non studiarla al liceo, visto che
quasi mai si riusciva a finire il programma. Ricordo le pagine con i manipoli
di soldati che si lanciavano all’assalto con la baionetta, ricordo il gesto
eroico di qualche singolo soldato che già allora, pur essendo bambina, mi
pareva una folle incoscienza. Ricordo- soprattutto- le didascalie magniloquenti
che inneggiavano all’Italia, che vantavano il valore del nostro prode esercito
nonché quello del generale Cadorna. E poi ricordo- e questo mi riempiva di
orgoglio- che vincevamo sempre, conquistavamo cime di monti e città. Sono
andata a cercare l’annata 1917, quella della disfatta di Caporetto- non c’è,
manca dalla collezione.
Ho appena terminato di leggere “La guerra bianca”
di Mark Thompson: è la stessa guerra, questa di cui parla lo storico inglese?
Questa tragedia senza fine in cui i nostri soldati sembrano vittime mandate al
macello, al comando di un generale sadico e di ufficiali altrettanto sadici?
Essendo inglese, Thompson non si fa alcuno scrupolo di descrivere le azioni di
guerra senza usare mezzi termini, segnalando l’incompetenza e- sì, bisogna
dirlo- la stupidità dei comandanti, l’ignoranza della gran massa dei nostri
soldati mandati al fronte con il miraggio ‘Trento e Trieste’ (un’allitterazione
che faceva buon gioco) senza neppure sapere con precisione dove fossero le due
città che l’Italia rivendicava. Il libro di Thompson si limita a prendere in
esame la guerra sul fronte orientale d’Italia- ‘la guerra bianca’ perché
combattuta tra le rocce sbiancate del Carso e nella neve invernale che
ricopriva le montagne finché le operazioni dovevano essere interrotte in attesa
di un clima migliore. Non prima, però, che i nostri soldati patissero il
freddo, mal equipaggiati, semicongelati, con le mani inutilizzabili, senza
neppure il nutrimento sufficiente per reggere a quell’immane sforzo.
L’Undicesima battaglia fu una vittoria
tecnica che sapeva di sconfitta. Lo storico ufficiale del Comando supremo era
il colonnello Gatti, un osservatore a distanza ravvicinata che seppe intuire
l’enormità di quel fallimento senza identificarne le cause (poiché la sua mente
si rifiutava di ammettere l’evidenza). Mentre i cadaveri continuavano ad
ammassarsi sul san Gabriele, Gatti annotava disperato nel suo diario: “Mi sento
qualche cosa che crolla dentro, io non potrò resistere a questa guerra, nessuno
di noi potrà resistere: è troppo gigantesca, è proprio senza confini, ci
stritolerà tutti.”
Leggiamo delle strategie belliche (facilmente criticabili anche da sprovveduti come possiamo essere noi lettori), di ordini assurdi, di combattimenti che si trasformano in stragi, di trincee poco profonde, delle fatidiche battaglie sull’Isonzo- numerate: se si arriva alla dodicesima vuol dire che undici sono andate male, ci vuol poco a capirlo. Leggiamo della pioggia che non finiva mai e che impregnava le divise, dei pidocchi, dell’insopportabile puzzo dei pendii trasformati in una enorme latrina. Ma leggiamo anche dei protagonisti della guerra bianca, del supponente generale Cadorna e del vanaglorioso e tronfio poeta D’Annunzio, del piccolo Re e del suo aitante cugino, il Duca d’Aosta, dei due fratelli Slataper e di Ungaretti, di Carlo Emilio Gadda e di Hemingway che dedicò il romanzo “Addio alle armi” alla sua esperienza come conducente di ambulanza sul fronte italiano.
Leggiamo delle strategie belliche (facilmente criticabili anche da sprovveduti come possiamo essere noi lettori), di ordini assurdi, di combattimenti che si trasformano in stragi, di trincee poco profonde, delle fatidiche battaglie sull’Isonzo- numerate: se si arriva alla dodicesima vuol dire che undici sono andate male, ci vuol poco a capirlo. Leggiamo della pioggia che non finiva mai e che impregnava le divise, dei pidocchi, dell’insopportabile puzzo dei pendii trasformati in una enorme latrina. Ma leggiamo anche dei protagonisti della guerra bianca, del supponente generale Cadorna e del vanaglorioso e tronfio poeta D’Annunzio, del piccolo Re e del suo aitante cugino, il Duca d’Aosta, dei due fratelli Slataper e di Ungaretti, di Carlo Emilio Gadda e di Hemingway che dedicò il romanzo “Addio alle armi” alla sua esperienza come conducente di ambulanza sul fronte italiano.
Leggiamo- e
questo spiega la versione della Storia che io ho letto sui numeri della
Domenica del Corriere- della severissima censura sulla stampa e sulla
corrispondenza privata dei soldati al fronte: nulla doveva trapelare delle
disfatte e dell’incidenza, altissima, dei morti e feriti. Solo nel primo mese di
guerra l’Italia perse tra gli 11mila e i 20mila uomini a fronte dei cinquemila
austriaci. In più, nota tristissima e dolente, i morti ‘giustiziati’ per
diserzione, per indisciplina, per autolesionismo. Ancora, un numero molto alto se paragonato con quello delle potenze nemiche. E moltissimi soldati messi a
morte furono uccisi con esecuzioni sommarie.
La vita umana aveva perso ogni
valore, chi era al comando aveva diritto di vita o di morte sui sottoposti.
Quello che resta in mente a noi lettori, un secolo dopo, è la sensazione che si
abbia giocato, non con pedine ma con uomini, di inutile spreco, di vite negate.
lo scrittore Mark Thompson
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