Casa Nostra. Qui Italia
Paolo Malaguti, “Se l’acqua ride”
Ed.
Einaudi, pagg. 200, Euro 17,50
“Quando
che senti l’acqua che ride, che gorgoglia, vuol dire che lì c’è una piera, o il
fondo basso, e bisogna starci alla larga. Se l’acqua ride, il burcio piange!”- era
stata questa la spiegazione che il padre aveva dato al ragazzo che faceva da
mozzo sul burchio del nonno, quando questi gli aveva urlato un ordine, cori a prua, sta ‘tento se l’acqua ride,
che lui non aveva capito.
Era l’estate del 1965. Il ragazzo che conosceremo soltanto con il soprannome, Ganbeto (il ferro ricurvo a U utilizzato per unire due anelli), deve ancora frequentare un anno di scuola media, ma sa già quale sarà il suo futuro. Perché la scelta non è molta: in paese c’è chi va operaio alla Fabrica, chi sta nei campi, chi parte sui burci. I soldi sono pochi in ogni caso, è una vita misera in quella bassa pianura percorsa da una rete di fiumi che sfociano nell’Adriatico.
Da un paio di anni la scuola media unificata e gratuita è diventata scuola dell’obbligo, il temuto professore Oio ha messo sulla cattedra un barattolo di vetro in cui gli alunni dovranno mettere una moneta per ogni errore che fanno (però, che sorpresa quando, alla fine dell’anno, scoprono che ognuno di loro riceve un libro in regalo, comperato con quei soldi), a Ganbeto la scuola non piace, in casa si parla il dialetto e l’italiano è quasi una lingua straniera, suo padre cede a malincuore a Ganbeto il suo posto sull’imbarcazione del nonno Caronte (un altro soprannome, quanto mai adeguato?) per andare a lavorare alla Fabrica. I loro sogni sono modesti- avere il gabinetto in casa (e quale sarà mai l’uso di quella strana cosa allungata posta tra il lavandino e la tazza?) e comprare un televisore. Ganbeto, poi, risparmierà per comprarsi una Vespa, come quella del film “Vacanze romane”. Quanto poi all’attore di quel film, Gregory Peck, nel ruolo di Achab è un mito, Ganbeto riesce quasi ad immaginare se stesso a bordo della baleniera.
Dal 1965 al 1966, un inverno e due estati che volano, colme di nuove esperienze per Ganbeto che scopre due cose- che ama la vita con il nonno a bordo della Teresina, che non riesce neppure a immaginare di rinchiudersi nella Fabrica, e poi che le ragazze non sono più delle mocciose, che pensando a loro commette dei peccati di cui si deve andare a confessare. Il burchio diventa come la baleniera che solca i mari inseguendo Moby Dick, come la nave che porta Ulisse alla scoperta del mondo. Le pagine in cui Ganbeto si trova nella laguna e ne annusa il profumo, o quando resta abbagliato da Venezia dove compera una gondola di plastica per il nonno sono di una bellezza poetica speciale, contrastata dalle scene realistiche in cui deve sostituire il cavallo che da riva trascina il burchio- un lavoro scomparso, quello del cavalante, come stanno scomparendo i burchi senza motore ammucchiati nel cimitero dei burchi, dove Ganbeto andrà a cercare il nonno dopo che questo è scomparso. È stata una decisione sofferta ma saggia, quella del nonno, di lasciare a casa Ganbeto, mentendo e dicendo che non è tagliato per fare il marinaio? Per permettergli di apprendere un mestiere, sapendo che per la Teresina era finita?
Piove senza smettere mai, nell’autunno del
1966. È l’autunno dell’alluvione, quello che segna definitivamente la fine di
un mondo che già stava sgretolandosi, un punto di svolta per Ganbeto che è
diventato grande, che ha la morosa.
Un romanzo di formazione singolare, in cui
tutto è al limite- gli anni in cui è ambientato, sulla soglia dell’epoca
moderna dei consumi, l’età di Ganbeto, tra infanzia e una matura adolescenza,
la terra al limite dell’acqua, il linguaggio tra un colorito e irriverente
dialetto e un italiano pieno di poesia.
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