giovedì 26 luglio 2018

Elda Lanza, “Una stagione incerta” ed. 2018

                                                              Casa Nostra. Qui Italia
                                                                     love story


Elda Lanza, “Una stagione incerta”
Ed. Ponte alle Grazie, pagg. 231, Euro 15,00

       Una voce al telefono che le augura buon compleanno. Che la chiama ‘Eddy’. Anche senza quel diminutivo che solo lui aveva usato, che lui aveva inventato per lei quando si erano conosciuti e il suo nome vero, Edgarda, sembrava troppo grande per una bambina di cinque anni (lui ne aveva dieci), lo avrebbe riconosciuto. Perché, perché è così. Perché non si dimentica la voce che faceva tremare il cuore a sedici anni, la voce del ragazzo con cui si è scambiato il primo bacio, quello che ci ha rivelato l’amore. Malgrado tutto quello che è seguito poi.
      Eddy compie sessantotto anni e da cinquant’anni non ha più saputo nulla di Nanni Delle Piane. Anzi, no, non è esatto. Ha visto in televisione il ragazzo che è diventato avvocato e ha avuto un ruolo importante in politica. Lo ha visto a fianco di una moglie bella, elegante, raffinata che sembrava essere l’esatto opposto di lei, Eddy dai capelli ricci e scuri e sempre un poco trasandata. Lo sa, Nanni, che anche lei è diventata famosa come scrittrice, che anche lei è apparsa in televisione in tutt’altro contesto?
      Si incontrano nuovamente, Eddy e Nanni, nello studio di lui, un ambiente neutro. Eddy diffidente e rancorosa, Nanni fin troppo espansivo- continua a ripeterle che ha sempre pensato a lei per cinquant’anni, nonostante moglie, figli e nipoti: gli si può credere dopo quello che le ha fatto? Inizia così un corteggiamento serrato con regali, pochi ma belli e costosi, soggiorni in case una più bella dell’altra- a Venezia, a Londra, nell’isola d’Elba, a Milano, a Roma, e poi la Mirabella dei loro ricordi di bambini (riacquistata da Nanni)-, mentre il cuore di Eddy (vedova dopo un matrimonio infelice) si scongela lentamente senza però mai cedere del tutto: è possibile rivoluzionare la propria vita quando ci si è già costruiti una propria identità che è servita anche da difesa?


     Elda Lanza, nata nel 1924- meglio dire l’anno di nascita, è un vanto l’aver raggiunto un’età più che matura con un passato così ricco-, assunta in Rai come presentatrice nel 1954, giornalista, esperta di comunicazione, ha pubblicato il suo primo romanzo con l’ispettore Massimo Gilardi come protagonista a ottantasette anni. C’è qualcosa nella sua vita, un’infanzia difficile e senza la presenza dei genitori, un marito molto bello e vanesio da cui si è separata, con cui è tornata insieme e che poi si è ammalato della malattia più terribile che possa colpire un essere umano privandolo della memoria, che fa pensare che la scrittrice abbia messo molto di se stessa in questo romanzo appena pubblicato, la storia di un amore che rivive in quella che non si può chiamare una nuova giovinezza, ma in un’età incerta che non è neppure vecchiaia, perché capace di sentimenti, di emozioni, di energia, di sogni e soprattutto di progetti.
Perché la vecchiaia incomincia quando si finisce di guardare avanti, quando si vive aspettando che cali il sipario- che, se sopraggiunge la malattia, è una fine augurabile. Quando la figlia di Nanni chiede a Edgarda se sia stato bello ritrovarsi, ‘malgrado l’età’, risponde di sì, ‘malgrado l’età’. Perché, poi, questo limite? ‘Che ne sa una donna di meno di quarant’anni di quali sentimenti si è capaci a settanta?’. Non c’è nulla di così soggettivo come il tempo, come l’età che uno ha. Ci sono solo stereotipi e luoghi comuni. Edgarda e Nanni hanno vissuto un’età ‘che non è mai esistita prima di loro. Quelli che erano stati vecchi prima di loro, erano vecchi in un altro modo alla loro età.’
“Una stagione incerta” è un insegnamento a non mollare la presa sulla vita, a non rifiutare i sentimenti a qualunque età si presentino, senza curarsi degli altri. La voce femminile di Edgarda suona più naturale di quella di Nanni che a volte ci pare affettata, e se la loro storia d’amore ci può sembrare all’inizio troppo da romanzo ‘alla Liala’, il finale quasi inevitabile ci fa piombare nell’inverno gelido della realtà.

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sabato 21 luglio 2018

Sandra Petrignani, “La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg” ed. 2018


                                                       Casa Nostra. Qui Italia
                                                                    biografia


Sandra Petrignani, “La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg
Ed. Neri Pozza, pagg. 459, Euro 15,30

      Ci sono delle persone la cui storia della vita sembra un romanzo. Perché, se è pur vero che il tempo di ognuno di noi trabocca degli avvenimenti importanti che segnano un’epoca, spesso però  non lo viviamo consapevolmente, non vi prendiamo parte in maniera attiva come è successo a grandi personaggi. Come Natalia Ginzburg, una delle voci di maggior rilievo della letteratura italiana- impossibile dimenticare il suo “Lessico famigliare”, titolo che è entrato nel vocabolario di tutti noi per indicare i modi di dire così strettamente nostri, chiave del cuore della nostra famiglia. Ne “La corsara” Sandra Petrignani fa qualcosa di più che scrivere una biografia di Natalia Ginzburg nata Levi, ne traccia un ritratto, ce la fa conoscere, le legge il carattere nei lineamenti spigolosi del viso un poco indios, le spia nell’ombra degli occhi le tragedie della sua vita.
      Perché, a mano a mano che procediamo nella lettura, questa è una delle cose che più ci colpisce, di Natalia Ginzburg- la sua resilienza, la sua capacità di non lasciarsi abbattere dai colpi del destino, di vacillare ma di rialzarsi e di ricominciare da dove la sua vita si è interrotta: la morte del primo marito, Leone Ginzburg, torturato e ucciso dai nazisti nel 1944 (Natalia aveva ventotto anni e restava sola ad affrontare l’ultimo anno di guerra con tre bambini piccoli, passando da un nascondiglio all’altro), la nascita di una bambina affetta da una malattia genetica (figlia del secondo marito, Gabriele Baldini, critico letterario e docente universitario) e poi la morte di un altro bambino, a solo un anno di vita (un dolore così grande che lei non ne parlerà mai), la seconda vedovanza.


Eppure, nonostante tutto questo, nonostante si portasse dietro un velo di infelicità infantile (ultima di cinque, soggiogata dal timore di quel padre titanico che ben ricordiamo da “Lessico famigliare”, brutto anatroccolo accanto alla sfolgorante sorella Paola che sposerà Adriano Olivetti prima di lanciarsi in altri amori), nonostante la guerra che aveva attraversato, Natalia veleggia nella vita come una corsara, può concedersi una pausa nella scrittura ma riprende sempre a scrivere, a tradurre, a leggere testi di scrittori esordienti per scoprire nuovi talenti da proporre alla casa editrice Einaudi che Leone Ginzburg aveva collaborato a fondare insieme al mitico Giulio.

      Sono tanti i nomi famosi nel mondo della letteratura (e, più generalmente, in quello della cultura) che costellano le pagine del libro di Sandra Petrignani- Elsa Morante e Alberto Moravia, Pasolini e Bassani, Carlo Levi e Primo Levi, e altri, e altri ancora. E “La corsara” diventa una lettura affascinante, perché l’autrice non inventa, non presume di poter entrare nella mente né di Natalia né degli altri protagonisti- sono troppo importanti, sarebbe un’arroganza il presumere di poter parlare in loro vece. Sandra Petrignani ripercorre la vita di Natalia attraverso una ricchissima documentazione, ci fa entrare dentro i suoi romanzi, nel prima, durante e dopo della loro stesura, traccia un parallelismo tra i personaggi creati da Natalia e Natalia stessa, fa nascere in noi il desiderio di leggere i suoi libri o di rileggere quelli che già abbiamo letto (e già questo dice molto de “La corsara”).

     La figura di Natalia Ginzburg esce fuori a tutto tondo da “La corsara”, con la sua timidezza e ritrosia ma anche con la fermezza e la precisione delle sue idee, con il pudore dei suoi sentimenti e la partecipazione attiva alle problematiche del suo tempo- una donna coraggiosa, sensibile e colta che ha saputo essere moglie e madre E una grande scrittrice.
     “La corsara” di Sandra Petrignani si è classificato al terzo posto nel Premio Strega 2018. Meritava di più.

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domenica 15 luglio 2018

Dunya Mikhail, “Le regine rubate del Sinjar” ed. 2018


                                                       Voci da mondi diversi. Medio Oriente
            Storia
           testimonianze


Dunya Mikhail, “Le regine rubate del Sinjar”
Ed. Nutrimenti, trad. Elena Chiti, pagg. 229, Euro 13,60

      Il Sinjar è una cittadina ai piedi di un monte con lo stesso nome al confine tra Iraq e Siria. Una montagna dà sempre l’idea di un’ascesa difficile, di un ostacolo, oppure del suo opposto, di un luogo dove si può trovare un nascondiglio e la salvezza dopo un’ardua ascesa. Fuggono verso il Sinjar gli yazidi perseguitati da Daesh. E precisiamo subito che gli yazidi sono una tribù di origine curda con lingua e religione propria- definiti infedeli dai militanti dell’Isis, questi si ritengono in diritto di perseguitarli, di rapire le loro donne considerate prostitute di Satana e quindi degne solo di diventare schiave sessuali. Quanto al termine Daesh, anche questo, come Isis, è un acronimo e significa “Stato Islamico dell’Iran e del Levante”, ma ha un’accezione dispregiativa perché somigliante ad un termine arabo che significa ‘portatore di discordia’.

      Il romanzo della poetessa irachena Dunya Mikhail è una sorta di reportage, un documento importante che raccoglie le testimonianze delle donne yazide rapite, violate, ridotte a merce di scambio eppure assurte alla dignità di regine a cui viene restituita l’importanza di essere donna al di là di tutto- come le api regine che sono le madri della maggior parte degli esemplari di un alveare, come le api da cui dipende l’intera vita umana (ricordo, a proposito, il bel libro di Maja Lunde, “Storia delle api”). E’ un apicoltore, Abdullah, che fa da intermediario tra Dunya Mikhail e le donne yazide. E’ lui che finora ha allevato api e venduto il miele da una parte all’altra del confine e che adesso ha fatto del salvataggio delle regine lo scopo della sua vita. Può farlo grazie ai suoi contatti e alla sua conoscenza capillare dei luoghi. D’altra parte le vicende della sua famiglia sono inestricabili da quelle delle altre famiglie yazide le cui porte sono state marchiate da Daesh con la lettera nun- e vengono i brividi a pensare ad altre porte, contrassegnate con altri segni, in epoca nazista, a come sia impossibile imparare dalla Storia e fermare il Male.

     “In futuro, quando la gente leggerà la nostra storia, penserà forse che siano racconti di fantasia. Invece è la nostra realtà di oggi, che sembra fantasia.” Sono una fantasia dell’orrore questi racconti, uno dopo l’altro, simili uno all’altro, raccontati da Nadia, dalla bambina Nazik, dalla donna che dà voce all’altra che è sordomuta, da un’altra e poi un’altra e un’altra ancora. Parlano di fughe, di uomini e vecchie e bambini separati dalle donne, da esecuzioni sul bordo delle fosse che diventeranno tombe di massa (spettri di altri ricordi), di donne vendute, donne che fingono di essere incinte, donne violentate, donne che riescono in qualche modo a scappare dalle grinfie di Daesh. C’è ancora gente buona che le aiuta e le nasconde, gente che presta loro il telefono per contattare qualcuno (è interessante il ruolo importantissimo dei cellulari in questo genocidio), c’è Abdullah, infine, che organizza, manda automobili, si presta in ogni modo possibile.

    Non è facile organizzare tanto materiale in un romanzo. Dunya Mikhail ci riesce mettendo al centro il personaggio di Abdullah, l’uomo giusto dei nostri tempi, l’eroe generoso che agisce senza attendere ricompensa, sullo sfondo quanto avviene a Mosul, dove sono proibite le sigarette, gli anticoncezionali e la musica (‘che inferno deve essere abitare a Mosul’), e intrecciando le storie delle ‘regine del Sinjar’ con la sua storia personale dell’esilio, con immagini colorate come quella dei narcisi che rifioriscono con il sole e “forse il Kurdistan è un narciso appassito per un po’, solo per un po’’,  con i versi che illuminano le scene drammatiche, come quella della ragazza che, ritornata finalmente a casa, ha trovato il suo amore sposato con un’altra: E’ scoppiato il vestito,/ sparge fiori al vento,/ scaglia colori in alto come i fuochi della festa,/ e invece non fa rumore/ non fa nessun rumore.

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giovedì 12 luglio 2018

David Lagercrantz, “Il cielo sopra l’Everest” ed. 2018


                                                                    vento del Nord
                                                                   cento sfumature di giallo


David Lagercrantz, “Il cielo sopra l’Everest”
Ed. Marsilio, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 348, Euro 19,00


   Nel 1996 una spedizione per raggiungere la cima del monte Everest terminò tragicamente: 8 morti si aggiunsero alle quasi duecento vittime del ‘mal d’Everest’. Diverse le cause del dramma. Il sopraggiungere di una tempesta (si sa, però, che il tempo può cambiare improvvisamente a quell’altezza), il ritardo con cui gli scalatori raggiunsero la vetta (anche questo è risaputo, si deve essere in cima entro le 14 per incominciare subito la discesa e non essere colti dal buio e dal gelo che cala con la notte), l’alto numero degli arrampicatori che causò rallentamenti nell’ascesa (e questo innesca la discussione sui pericoli dell’aver trasformato uno sport arduo, che richiede allenamento, disciplina, preparazione, idonee condizioni fisiche, in una escursione turistica).
    E’ a questi fatti che si ispira “Il cielo sopra l’Everest” dello scrittore svedese David Lagercrantz, un romanzo che mescola realtà e immaginazione, personaggi che rispecchiano i veri partecipanti della spedizione ed altri inventati, un libro che affascinerà sia gli amanti della montagna sia chi non ha mai fatto un’arrampicata in vita sua e si chiede, perché? perché correre tali rischi, perché sottoporre il proprio corpo a tali sforzi e a tali sofferenze?
La risposta data da George Mallory, l’alpinista inglese morto sull’Everest nel 1924, ad un giornalista che gli aveva chiesto perché voleva raggiungere la cima della montagna che, con i suoi 8848 metri, è la più alta del mondo, è rimasta famosa. “Perché è lì”, aveva detto. Perché è il simbolo “del desiderio dell’umanità di conquistare l’universo”. George Mallory era un ‘puro’, scalava al tempo in cui non c’era attrezzatura termica adeguata e neppure c’erano le bombole d’ossigeno che attenuassero il male da altura (le conseguenze dell’insufficienza di ossigeno che arriva al cervello sono descritte in maniera straordinaria e terrificante da Lagercrantz). E tuttavia non era forse meglio basarsi solo sulla capacità di adattamento del fisico umano che permetteva di rendersi conto fino a dove ci si poteva spingere?
   I livelli di lettura de “Il cielo sopra l’Everest” sono diversi, tutti coinvolgenti e appassionanti.
Primo livello, quello vicino ai fatti reali: storia di una spedizione famosa da cui è stato tratto anche un film, ricca di dettagli sul campo base, le difficoltà delle varie tappe, l’avvicinarsi della tormenta, la catastrofe.
Secondo livello, il filone romanzesco: le vicende dei vari personaggi, la rivalità tra la guida italiana Giuseppe Cagliari (ad inizio del libro è solo, accasciato nella neve, sente la fine avvicinarsi e, con un misto di soddisfazione e colpevolezza, pensa che il suo rivale, l’imprenditore di successo Paolo Villari, deve essere già morto), le storie della donna che dirige e organizza il campo base, della guida nepalese che spera, un giorno, di poter cambiare vita, dei fedelissimi sherpa senza i quali gli scalatori amatoriali non potrebbero muovere un passo, dei clienti che- ognuno con il suo proprio motivo- vogliono arrivare in vetta, dello scalatore in solitaria, Jacob Engler, infine, quello che interpreta l’antitesi degli scalatori da strapazzo, l’esagerazione dell’alpinismo, l’uomo che inconsciamente sfida la morte cercandola di continuo.
Terzo livello, e lo chiamerei il filone della religione della montagna: gli occidentali hanno perso il senso del Sacro ma tutti gli orientali sentono fortemente la spiritualità della natura, l’Everest- i nepalesi lo chiamano Chmolungma, e quanta alterigia, disprezzo, senso di superiorità di stampo colonialista c’è nella voce di Paolo Villari che neppure riesce a pronunciare questo nome- è una divinità a cui bisogna innalzare un piccolo stupa, un altare, prima di violare i suoi fianchi, bisogna appendere bandierine di preghiera, non lo si deve far adirare con comportamenti profani (tutta quella promiscuità e quel sesso nel campo base, che orrore), si devono interpretare i segnali che invia. Il messaggio finale è che non si scala la Dea madre del mondo per divertimento.

Quarto livello, quello del thriller, che tiene avvinti fino all’ultima pagina. Lo scrittore scava nei suoi personaggi- a qualcuno di loro si può attribuire una responsabilità maggiore per la morte di un compagno di scalata?
Questo è, infine, un thriller grandioso in cui c’è un assassino grandioso e sappiamo dall’inizio chi è: la splendida montagna ‘che è lì’, che stuzzica e sfida, che si vendica, impassibile, dell’arroganza e della superbia degli ometti che violano il suo candore.

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lunedì 9 luglio 2018

Andrea Camilleri, “Il metodo Catalanotti” ed. 2018


                                                           Casa Nostra. Qui Italia
                                                        cento sfumature di giallo


Andrea Camilleri, “Il metodo Catalanotti”
Ed. Sellerio, pagg. 291, Euro 14,00

      Più adeguata che mai, in questo nuovo romanzo del nostro geniale Camilleri, la citazione di Shakespeare, Il mondo è un palcoscenico e uomini e donne sono solo gli attorie gli uomini recitano molte parti. Perché ‘il morto’ su cui Salvo Montalbano si troverà ad indagare è un uomo dalla doppia personalità, un attore con due facce, quella dell’usuraio e quella dell’originale regista teatrale- prima di assumere un attore vuole che questi si cali nella sua parte, che viva sulla sua pelle e dentro il suo cuore quello che dovrà rappresentare sul palcoscenico, che calchi il palcoscenico del mondo prima che quello del teatro. E tutto il romanzo, poi, si trasforma in una sorta di recita continua, con personaggi dalla duplice faccia, è tutto un entrare ed uscire dal palcoscenico, cambiando aspetto e personalità.
   Ad iniziare da Mimì Augello, impenitente donnaiolo che, all’inizio del libro, è l’attore principale di una farsa tipica della commedia: mentre è in visita dalla sua ultima fiamma, una Genoveffa Recchia (facile immaginare come Catarella storpierebbe questo nome- ormai Camilleri ride tra sé e sé divertendosi a scrivere la sua serie di Vigata) che si fa chiamare Geneviève (ha anche lei un doppio), il marito torna a casa di sorpresa, Mimì si cala dalla finestra, entra nell’appartamento del piano di sotto e, muovendosi a tastoni, tocca un uomo su un letto. Un cadavere. In piena notte si precipita da Montalbano che sta sognando- ecco un’altra dimensione del romanzo, quella del sogno (la vita è sogno) che si aggiunge agli intermezzi di ciò che è avvenuto e che è raccontato come se fosse un copione teatrale. Quando i due torneranno nell’appartamento per cancellare le tracce di Mimì, il morto è scomparso. E intanto una domestica ha trovato il corpo senza vita di Carmelo Catalanotti- anche lui adagiato sul letto come per un ultimo sonno.

    Se Mimì è l’interprete della farsa dell’amante in fuga dal marito cornuto, Salvo Montalbano diventa il protagonista di una soap opera dal gusto dolce amaro, di una riflessione sul tempo che passa, sulla trasformazione inevitabile di un sentimento che patisce l’usura e si è esaurito con la consuetudine e la lontananza. Salvo è affascinato dal nuovo capo della scientifica- ha già avuto altre sbandate in passato, ma quello che prova per Antonia è diverso. Gli fa dimenticare Livia, anzi, gli fa sentire come un peso anche il solo pensiero di Livia, si irrita a sentire la sua voce al telefono, la sente all’improvviso estranea, mentre Antonia lo fa sentire come un ragazzino al primo amore. Per lei si fa un nuovo guardaroba, entra in profumeria per comprare lozione e crema da barba- per poi sentirsi dire da Antonia che lo preferiva come era prima. Salvo non ha tempo di rattristarsi per un amore che è finito (noi ce ne eravamo accorti da tempo), pensa al futuro che non può lasciarsi sfuggire. Per Livia non ha mai sacrificato niente, per Antonia è disposto ad andare in pensione per seguirla nella sua prossima assegnazione- non sa ancora però che le parti sono state invertite sul palcoscenico, un po’ come ne “La bisbetica domata”, è Antonia a decidere, lei non ha bisogno di un uomo per essere se stessa.

     Camilleri non sarebbe Camilleri se non ampliasse la scena del suo romanzo, se oltre a donarci una trama d’indagine poliziesca, oltre a far crescere ed invecchiare i suoi personaggi, non guardasse con occhio attento la realtà in cui le vicende si svolgono. E così Montalbano, in una Sicilia in cui le fabbriche chiudono, i giovani laureati scaricano cassette del pesce, la disoccupazione aumenta, rispunta lo spettro dell’emigrazione, ‘protegge’ una giovane coppia da un padre prepotente e violento.
     Ogni romanzo di Andrea Camilleri è un miracolo di invenzione e di finezza. Non perdetevi questo, anche se per chi è del Nord come me, a volte sembra scritto in una lingua straniera. Vale la pena anche se non si capisce proprio tutto: anche quello ha il suo fascino.

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venerdì 6 luglio 2018

Libby Page, “Il Lido” ed. 2018


                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Libby Page, “Il Lido”
Ed. La Nave di Teseo, trad. V. Vega, pagg. 422, Euro 17,00

    Il Lido. Una nota del libro ci dice che le piscine all’aperto sono chiamate così in Inghilterra- non solo in Inghilterra, però, anche Milano ha il suo lido. Questo è il Lido di Brixton, nell’area sud di Londra, un quartiere salito alla ribalta della cronaca durante le proteste e i disordini degli anni ‘80. Due donne le protagoniste del romanzo di Libby Page- l’ottantaseienne Rosemary e la ventenne Kate. Rosemary ha sempre vissuto a Brixton, non se ne è allontanata neppure durante la guerra, quando tutti i bambini venivano evacuati, ed ora, dopo la morte del marito George, si sente sola. La solitudine di Kate è quella di una ragazza che non ha fiducia in se stessa, senza amici e lontana dalla famiglia perché arrivata da poco da Bristol per lavorare come giornalista al giornale locale.
     C’è nell’aria la minaccia che il Lido verrà chiuso, forse la piscina sarà coperta per farne un campo da tennis, più adeguato agli interessi dei nuovi abitanti che un’agenzia immobiliare spera di attirare. E Kate ha l’incarico di scrivere un articolo su che cosa significhi la chiusura della piscina per quelli che la frequentano. Come Rosemary che, tuttora, inizia la sua giornata nuotando nella piscina. Che ha imparato a nuotare al Lido, che ha dei ricordi preziosi della sua storia d’amore con il marito George legati al Lido, che vedrebbe un altro pezzo del suo piccolo mondo racchiuso nel quartiere sgretolarsi sotto il martello del tempo- anche la Biblioteca in cui lavorava è stata chiusa, vecchi negozi sono stati trasformati in locali alla moda: che ne sarà del futuro della piccola comunità di Brixton abituata ad offrirsi amicizia e sostegno l’un l’altro?


      Kate potrebbe scrivere un solo articolo come le è stato richiesto di fare, e invece scocca qualcosa tra di lei e l’anziana signora che capovolge i ruoli e fa parlare lei, Kate, come se dovesse essere l’intervistata, al suo posto. La sensibilità di Rosemary, la saggezza che ha accumulato con gli anni, la sua empatia, le fanno intuire l’infelicità di Kate e il suo bisogno di aiuto, prima ancora di sapere alcunché, che Kate soffre di attacchi di panico, di nostalgia di casa, di solitudine nutrita da piatti pronti da scaldare nel microonde.
      Se viene in mente il bellissimo libro di Doris Lessing, “Il diario di Jane Somers”, leggendo dell’amicizia fra due donne di età diverse, ci rendiamo conto, però, che “Il lido” di Libby Page prende un’altra direzione. Diventa la storia di un intero quartiere, oltre ad essere la storia di Rosemary- con i flashback della sua vita con George- e la storia di Kate con tutte le sue insicurezze. Perché, quando Kate continua a scrivere articoli sul Lido, rendendoli vivi con le parole di chi la frequenta, si fa strada l’idea di avanzare una petizione, di dimostrare l’importanza sociale del Lido e sottolineare quanto grave sarebbe la perdita per tutti coloro per cui è l’unico sostituto di spiagge che non si potranno mai permettere di vedere. Ed è incredibile quante persone si stringano accanto a Rosemary e Kate, la quale ha iniziato, pure lei, a nuotare ogni mattina. E a stare meglio, ad essere colta meno frequentemente dal Panico.

      Le vicende narrate ne “Il Lido”- a tratti drammatiche, a tratti romantiche, a volte buffe (come la scena in cui Rosemary si presenta con una muta sotto il cappotto, per dimostrare che l’amato Lido si può sfruttare anche in inverno)- sono quelle di un microcosmo in cui la piscina serve da collante, è lo spunto per ravvivare la solidarietà, è il denominatore comune che unisce giovani e anziani nell’esercizio fisico.
      Direi che è una lettura piacevolmente perfetta tra una nuotata e l’altra, a bordo piscina o sulla spiaggia.

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mercoledì 4 luglio 2018

Rebecca West, “La famiglia Aubrey” ed. 2018


                                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                            storia di famiglia


Rebecca West, “La famiglia Aubrey”
Ed. Fazi, trad. F. Frigerio, pagg. 570, Euro 18,00

   
  Qualcosa di Nancy Mitford, qualcosa di Elizabeth Jane Howard, tanto di prettamente inglese nel romanzo “La famiglia Aubrey” di Rebecca West, anzi, di Dame Rebecca West per chiamarla con il meritato titolo onorifico. Come Nancy e come Elizabeth Jane, anche Rebecca West scrive un romanzo che è quasi un’autobiografia, costruito sui suoi ricordi, e mette una famiglia numerosa al centro del romanzo- padre, madre, tre sorelle e un fratellino.
  Sbrigativamente si potrebbe dire che non succede niente ne “La famiglia Aubrey”. Succede la vita, ma la lettrice si appassiona ai personaggi, ne segue le piccole storie in un libro in cui prevalgono le figure femminili e gli uomini- per quanto rispettati, serviti e riveriti come tutti gli uomini dell’epoca- non sono degni della nostra ammirazione e, se hanno un ruolo importante, è in un registro negativo. Lui, il capofamiglia, è un editorialista di qualità, e però gioca in borsa, perde costantemente ingenti somme di denaro, vende tutto quello che può vendere, mobili inclusi, riduce letteralmente alla fame la moglie e i bambini. Nella perenne fuga dai creditori gli Aubrey approdano in un quartiere periferico di Londra.
E’ la mamma che tiene alto il morale- non bella, troppo magra, prima di sposarsi era una pianista di successo e la casa degli Aubrey è piena di musica. La musica, l’essere o non essere dotati di capacità musicali- è questo quello che conta, più di ogni altra cosa, è il metro su cui si giudicano le persone. Ci si aspetta molto dal futuro di due delle bambine, le gemelle Mary e Rose, mentre è chiaro, alla mamma e alle gemelle, che la figlia maggiore, Cordelia – così bella con i suoi riccioli rossi- è uno strazio con il violino che però si intestardisce a suonare, convinta di essere vittima di una mancanza d’amore da parte della mamma. Quanto all’unico maschietto, è troppo piccolo per poter giudicare le sue inclinazioni. Tutti lo adorano e lo viziano.
    La voce narrante del romanzo è quella di Rose, sarà lei ad osservare le difficoltà giornaliere di una famiglia che potrebbe ambire ad una vita migliore ma è al di sotto del limite della povertà. Eppure la mamma giustifica sempre il papà, si sente addirittura in colpa per avergli fatto credere che i tre quadri che erano di proprietà della sua famiglia sono solo delle copie- li avrebbe venduti, altrimenti, e invece saranno la garanzia per il futuro dei bambini. Nonostante tutto- tipico del tempo, i primi anni del ‘900- gli Aubrey hanno anche una domestica, tirata fuori da abissi di povertà ancora maggiori.

Rose ci racconta le minuzie della quotidianità, l’isolamento che le bambine sperimentano a scuola, la solidarietà e le scaramucce tra lei e le sorelle, le visite di un’amica della mamma con la figlia (appare sulla scena un altro marito sgradevole e c’è pure un risvolto gotico del romanzo, con fenomeni di poltergeist), l’accanimento con cui Cordelia si dedica al violino, sostenuta da un’insegnante che le procura addirittura degli ingaggi (come in tanti altri romanzi del primo novecento, questo amore unilaterale di una donna per un’altra di molto più giovane nasconde un lesbianismo di cui non si può parlare), un delitto, infine, proprio nella cerchia delle conoscenze degli Aubrey.

    Dame Rebecca West è nata nel 1892, dodici anni prima di Nancy Mitford e addirittura un trentennio prima di Elizabeth Jane Howard. Il suo stile è pacato, non ha la brillantezza e il brio di quello delle altre due scrittrici, è più vicino a quello della tradizione ottocentesca. Tuttavia si avverte, nel romanzo, un fermento sotto la superficie degli avvenimenti, dei segnali leggeri di cambiamenti di un prossimo futuro che porterà la prima guerra mondiale- nuove proposte di legge, nuove fogge per gli abiti femminili, mentre le regole non scritte che codificano i matrimoni sono sempre le stesse dei tempi di Jane Austen. Piace la voce della bambina narrante che ha la saggezza e la maturità che i bambini di oggi non hanno più. Piace il pennello fine con cui vengono tratteggiati i personaggi. Piacciono i paesaggi verdeggianti, i fiori di Kew Gardens, l’atmosfera stillante inglesità di ogni pagina del libro.

la recensione è pubblicata anche su www.stradanove.net
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domenica 1 luglio 2018

Simon Urban, “Piano D” ed. 2018


                                                 Voci da mondi diversi. Area germanica
                spy-story


Simon Urban, “Piano D”
Ed. Keller, trad. R:Gado, pagg. 544, Euro !6,15

    “Il piano D”. D come Deutschland, naturalmente. Il Piano D- lo verremo a sapere- è un’idea grandiosa, utopistica, profetica, l’idea di un uomo che vola alto e combatte per il bene del suo paese. Che non è né il socialismo attuale che rinchiude il paese in una prigione e non è neppure il capitalismo che uccide ogni ideale. Si chiamerà posteritatismo: è questo il cuore del romanzo di Simon Urban, un libro che è una spy-story, un thriller di genere fanta-politico, dissacrante, cinico, divertente, drammatico, selvaggiamente umoristico, di quell’umorismo per cui si ride amaro, per non piangere.
    2011, ottobre a Berlino. La Germania è ancora divisa in due, il Muro è stato abbattuto e riedificato (più di due milioni di persone avevano approfittato dell’improvvisa liberta per emigrare- leggi ‘fuggire’- ad ovest), c’è stata la Rianimazione e non la Riunificazione, la DDR vive nel solito grigio squallore, grigie le abitazioni di modello sovietico per le masse, grigi e di cattiva qualità gli abiti, grigio il cibo, grigia la carnagione degli Ossi (i tedeschi dell’Est, contrapposti ai Wessi), grigio perfino il cielo in questo ottobre gocciolante di pioggia. Soltanto la tecnologia ha fatto passi da gigante nella produzione di nuovi computer e cellulari modello Minsk, ambitissimi anche a Ovest.

Un uomo anziano viene trovato morto in un bosco. Impiccato al tubo di un gasdotto. Non può essere un suicidio. I suoi piedi appoggiavano sul tetto di un’auto che è sfrecciata via, lasciandolo penzolante con otto nodi al cappio e le stringhe delle scarpe allacciate insieme: sembra un’eliminazione con la firma della Stasi, la famigerata organizzazione ministeriale per la sicurezza e lo spionaggio dei cittadini della DDR. Se fosse così, se venisse provato che c’è la Stasi dietro la morte di Albert Hoffmann, già consigliere del primo ministro, le prossime consultazioni per il programma energetico- di vitale importanza per entrambe le Germanie- sarebbero a rischio. E così un poliziotto dell’Ovest, Brendel, affiancherà Martin Wegener della Volkspolizei, il punto di vista nonché il protagonista del romanzo.

     Martin Wegener, 56 anni, separato- con dolore, con rimpianto, con perdurante amore- dalla moglie che ha fatto carriera nel Ministero, è un personaggio che ci conquista. Martin non è mai solo, è sempre affiancato dall’ombra della moglie e da quella del suo vecchio capo Fruchtl che è scomparso nel nulla un paio di anni prima. Martin parla con le sue ombre, è capace di eccitarsi al solo vibrare del telefono nella tasca quando sa che è una chiamata della moglie, mentre la voce di Fruchtl si sovrappone alla sua, forte e chiara come se fosse veramente accanto a lui. Fruchtl è una sorta di Grillo Parlante che commenta, critica, ironizza, fa battute umoristiche, raddrizza i pensieri di Martin con le sue freddure. Ma si può veramente fidare, Martin, del suo doppio e della sua ex-moglie? Se è per quello, si può fidare dell’affascinante poliziotto che viene dall’Ovest con la Mercedes che blocca il traffico perché gli Ossi si fermano per ammirarla, con le sue scarpe di vero cuoio e gli abiti firmati? Un’esilarante scena su una spiaggia di nudisti in cui i due hanno un appuntamento e sono obbligati a spogliarsi per accedere mostra che la differenza tra un Ossi e un Wessi è lampante anche quando sono nudi come Adamo.

Può mai venire alla luce la verità in uno stato che archivia scartoffie con le vere vite di tutti i cittadini, che forza confessioni veritiere in temute prigioni, che eleva il tradimento a dovere patriottico, che fa della paranoia la malattia nazionale? Chi era dunque questo Albert Hoffmann che aveva pure una seconda identità come giardiniere del quartiere esclusivo abitato dai ministri? Perché doveva essere tolto di mezzo? Soprattutto, da chi? Dalla Stasi o da altri che volevano far credere fosse stata la Stasi?
    I colpi di scena si succedono in questo ottimo romanzo che non risparmia neppure le critiche alla Germania dell’Ovest e al capitalismo che rappresenta. Intelligente e intrigante, un libro da leggere, che si differenzia dalla narrativa dei commerciali best sellers.

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