Voci da mondi diversi. Medio Oriente
Storia
testimonianze
Dunya Mikhail, “Le
regine rubate del Sinjar”
Ed. Nutrimenti, trad. Elena Chiti, pagg. 229, Euro 13,60
Il Sinjar è una cittadina ai piedi di un
monte con lo stesso nome al confine tra Iraq e Siria. Una montagna dà sempre
l’idea di un’ascesa difficile, di un ostacolo, oppure del suo opposto, di un
luogo dove si può trovare un nascondiglio e la salvezza dopo un’ardua ascesa.
Fuggono verso il Sinjar gli yazidi perseguitati da Daesh. E precisiamo subito
che gli yazidi sono una tribù di origine curda con lingua e religione propria-
definiti infedeli dai militanti dell’Isis, questi si ritengono in diritto di
perseguitarli, di rapire le loro donne considerate prostitute di Satana e
quindi degne solo di diventare schiave sessuali. Quanto al termine Daesh, anche
questo, come Isis, è un acronimo e significa “Stato Islamico dell’Iran e del
Levante”, ma ha un’accezione dispregiativa perché somigliante ad un termine
arabo che significa ‘portatore di discordia’.
Il romanzo della poetessa irachena Dunya
Mikhail è una sorta di reportage, un documento importante che raccoglie le
testimonianze delle donne yazide rapite, violate, ridotte a merce di scambio
eppure assurte alla dignità di regine a cui viene restituita l’importanza di
essere donna al di là di tutto- come le api regine che sono le madri della
maggior parte degli esemplari di un alveare, come le api da cui dipende
l’intera vita umana (ricordo, a proposito, il bel libro di Maja Lunde, “Storia
delle api”). E’ un apicoltore, Abdullah, che fa da intermediario tra Dunya
Mikhail e le donne yazide. E’ lui che finora ha allevato api e venduto il miele
da una parte all’altra del confine e che adesso ha fatto del salvataggio delle
regine lo scopo della sua vita. Può farlo grazie ai suoi contatti e alla sua
conoscenza capillare dei luoghi. D’altra parte le vicende della sua famiglia
sono inestricabili da quelle delle altre famiglie yazide le cui porte sono
state marchiate da Daesh con la lettera nun-
e vengono i brividi a pensare ad altre porte, contrassegnate con altri segni,
in epoca nazista, a come sia impossibile imparare dalla Storia e fermare il
Male.
“In futuro, quando la gente leggerà la
nostra storia, penserà forse che siano racconti di fantasia. Invece è la nostra
realtà di oggi, che sembra fantasia.” Sono una fantasia dell’orrore questi
racconti, uno dopo l’altro, simili uno all’altro, raccontati da Nadia, dalla
bambina Nazik, dalla donna che dà voce all’altra che è sordomuta, da un’altra e
poi un’altra e un’altra ancora. Parlano di fughe, di uomini e vecchie e bambini
separati dalle donne, da esecuzioni sul bordo delle fosse che diventeranno
tombe di massa (spettri di altri ricordi), di donne vendute, donne che fingono
di essere incinte, donne violentate, donne che riescono in qualche modo a
scappare dalle grinfie di Daesh. C’è ancora gente buona che le aiuta e le
nasconde, gente che presta loro il telefono per contattare qualcuno (è
interessante il ruolo importantissimo dei cellulari in questo genocidio), c’è
Abdullah, infine, che organizza, manda automobili, si presta in ogni modo
possibile.
Non è facile organizzare tanto materiale in
un romanzo. Dunya Mikhail ci riesce mettendo al centro il personaggio di
Abdullah, l’uomo giusto dei nostri tempi, l’eroe generoso che agisce senza
attendere ricompensa, sullo sfondo quanto avviene a Mosul, dove sono proibite
le sigarette, gli anticoncezionali e la musica (‘che inferno deve essere
abitare a Mosul’), e intrecciando le storie delle ‘regine del Sinjar’ con la
sua storia personale dell’esilio, con immagini colorate come quella dei narcisi
che rifioriscono con il sole e “forse il Kurdistan è un narciso appassito per
un po’, solo per un po’’, con i versi
che illuminano le scene drammatiche, come quella della ragazza che, ritornata
finalmente a casa, ha trovato il suo amore sposato con un’altra: E’ scoppiato il vestito,/ sparge fiori al
vento,/ scaglia colori in alto come i fuochi della festa,/ e invece non fa
rumore/ non fa nessun rumore.
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