mercoledì 31 maggio 2023

Michael Frank, “Cento volte sabato” ed. 2023

                                 Voci da mondi diversi. Diaspora ebraica

             Shoah

Michael Frank, “Cento volte sabato”

Ed. Einaudi, trad. Marco Rossari, pagg. 256, Euro 19,50

 

    Stella Levi e la ricerca di un mondo perduto, recita il sottotitolo del libro di Michael Frank. Quanti mondi sono andati persi, distrutti, trascinati nel vortice di morte della seconda guerra mondiale. Abbiamo letto tanto di quella yiddishland scomparsa nel cuore dell’Europa, non avevamo ancora sentito parlare del mondo giudeo-spagnolo di Rodi a cui appartiene Stella Levi, così simile e così diverso dagli shtetl della Polonia.

     La narratrice è lei, Stella, nata a Rodi nel 1923, ma c’è un secondo narratore che raccoglie la sua storia ed è quel Michael Frank di cui abbiamo già letto il frizzante “I formidabili Frank”. Per cento sabati, nel tempo del riposo dello Shabbat,  a quasi cento anni (il numero perfetto che si ripete due volte), Stella ha incontrato Michael Frank e ha ricostruito per lui- e per noi, e per se stessa- il mondo della Juderia in cui è nata e cresciuta. E il racconto si fa più vivace, Stella parla, ogni tanto Michael Frank interloquisce, fa domande, chiede spiegazioni, cerca di puntualizzare senza mai invadere l’intimità dei racconti di Stella, senza mai forzarla. Anche se mai Stella si lascerebbe forzare, perché da ogni sua parola avvertiamo la sua tempra, la sua indipendenza di spirito, quella energia vitale che le è servita per sopravvivere e per continuare a vivere, senza mai arrendersi, costruendosi una seconda vita.


   Non è solo il fascino di un tempo lontano e di uno stile di vita più ‘a misura di uomo’ che affiora dalla descrizione della vita a Rodi. È anche l’incanto di un’isola fatta di sole e di luce e di azzurrità in cui gente di religione diversa- greci ortodossi, cattolici, minoranze turche musulmane ed ebrei- aveva convissuto pacificamente per secoli. La famiglia di Stella era numerosa, sette tra fratelli e sorelle. Il maggiore era già andato via da Rodi prima che nascessero le ultime due sorelle, Renée e Stella. Stella racconta, della sorella intellettuale, di quella che preparava il corredo, della raffinatezza di Renée che soffriva d’asma e veniva viziata, della strana usanza della enserradura, delle chiacchiere delle donne nel kortijo, di quando lei, Stella, a quattordici anni aveva preparato la valigia per il giorno in cui sarebbe andata a frequentare l’università in Italia.

     Gli italiani erano arrivati nel 1923 a Rodi. Quando Michael Frank chiede a Stella quale sia la sua ‘lingua dominante’, lei non ha dubbi, ‘Fin dall’inizio ho adorato la lingua italiana’, perché assomigliava alla sua, perché studiava in quella lingua, perché le aveva aperto la mente e il cuore. Gli italiani portarono tante migliorie a Rodi, si fecero amare. Poi furono gli italiani che, nel 1943, stilarono l’elenco dei 1700 ebrei dell’isola che furono deportati dai nazisti.


Passano molti sabati, sabati in cui Stella parla di feste, di cibo, di incontri, di amicizie e di amori con dei giovani italiani, prima che arrivi a parlare delle leggi razziali che le impedivano di frequentare la scuola, del professore che organizzò delle lezioni per gli studenti ebrei (era innamorato di lei? più tardi le dirà che il suo rifiuto di sposarlo era stato il suo più grande dolore), e del fatidico 23 luglio 1944 quando l’intera comunità ebraica di Rodi fu caricata su una nave. La macchina di sterminio tedesca continuava ad operare in una maniera paradossalmente perfetta e assurda. Che cosa poteva essere più assurdamente inutile di quel dispendio di forze e di mezzi per quello che fu il viaggio di deportazione più lungo- da Rodi ad Atene e poi in treno risalire l’Europa fino ad Auschwitz?  Il novanta per cento fu ucciso all’arrivo. Stella sopravvisse.

     Tutti i fratelli e sorelle sopravvissero alla Shoah. Stella parla dei campi, ma è come se volesse gettarsi alle spalle quel ricordo- sia lei sia la sorella si fecero togliere il numero tatuato sul braccio, dopo, quando arrivarono in America dove iniziarono un’altra vita.

    La bellezza di questo libro è nella doppia voce, è nella maniera in cui questa donna eccezionale rivive il suo passato senza fare dell’indicibile esperienza dei campi il nodo focale del suo racconto. Le sue memorie puntano lì, certo, ma c’è anche tanto altro di cui parlare ed è quel tanto altro che forse spiega la sua resilienza- ci vuole intelligenza anche per vivere.

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sabato 27 maggio 2023

Isaac B. Singer, “Max e Flora” ed. 2023

                                    Voci da mondi diversi. Diaspora ebraica

      premio Nobel

Isaac B. Singer, “Max e Flora”

Ed. Adelphi, trad. E. Zevi, pagg. 207, Euro 19,00

 

     Torniamo in via Krochmalna, a Varsavia, teatro delle vicende di “Keyla la Rossa”. Torniamo nella strada del ghetto popolata da trafficoni, ladri, prostitute- l’altra faccia della società ebraica, quella senza le palandrane nere e i peyot ai lati del viso, in quella yiddishland ormai scomparsa. E ritroviamo Max Shpindler in “Max e Flora”.

    Max si è dato una ripulita, andando a Buenos Aires. Ha messo su una facciata di perbenismo- in Argentina ha fatto fortuna con una fabbrica di borsette, è sposato con Flora, si amano. E adesso sono tornati a Varsavia in cerca di ‘merce fresca’. Sì, perché, dietro le borsette che giustificano i guadagni, c’è il bordello gestito da una tal Berta e Max si è impegnato a portare un buon numero di ragazze vergini. A lui il diritto di sedurle e istradarle, Flora lo sa e non è gelosa.

   Poi l’amico Meir  Panna Acida (niente come questi soprannomi, e a Meir aggiungiamo la moglie Leah Lingualunga, Itche il Guercio e Srulke il Tonto, ci dà l’idea dell’ambiente di via Krochmalna) gli presenta Rashka, una biondina quindicenne che fa la serva presso una vecchia signora. E Max perde la testa, è certo di essere innamorato. Non ha nessuna intenzione di portarla nel bordello di Berta, Rashka è per lui.


    Le vicende di Max tornato a Varsavia sfiorano il tragicomico. Dovrebbe essere meno ingenuo, alla sua età, invece si lascia irretire da una gruppo di anarchici a cui fornisce dei soldi, per poi tirarsi indietro con la paura che lo ricerchino per ucciderlo, rapisce Rashka sorvolando sul fatto che lei non ha documenti e lui è perseguibile, visto che Rashka è minorenne, la porta in una cittadina termale facendola passare per sua figlia. E Flora? Max non vuole più saperne di Flora da quando ha scoperto che, quando l’ha conosciuta, non era affatto una ragazza innocente ma una prostituta. Lo sapevano tutti, lavorava con Leah Lingualunga, come poteva Max non aver mai avuto il minimo sospetto?

    Pensa di uccidere Flora, pensa di uccidere l’uomo che era stato il suo amante e che Flora ha di nuovo incontrato a Varsavia, no, non la ucciderà, non ucciderà neppure l’amante, la ama ancora, no, non la ama, è stanco di Rashka che è proprio una bambina con cui non può parlare di tutto come faceva con Flora. È pieno di dubbi e di incertezze, Max, sugli altri, su se stesso, sulla vita che ha condotto finora. Si ritrova perfino a pensare a valori spirituali che mai lo avevano turbato prima. Che cosa gli succede? È sapere che l’amico Meir sta morendo che lo spinge ad altri pensieri?

Via Krochmalna oggi

    Questo tassello che ricompone un mondo che non c’è più (“Max e Flora” completa la trilogia iniziata con “Il ciarlatano”) è scritto con la precisione, il colore, la ricchezza di dettagli che contraddistinguono lo stile di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel 1978. Uno stile che riesce a combinare vivacità, ironia, leggerezza e profondità, cinismo e una certa qual tristezza di sottofondo. Perché la conclusione, che tira le fila delle varie vicende e raduna sulla scena tutti i personaggi, sia quelli maggiori sia quelli minori, è naturalmente tragico.

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martedì 23 maggio 2023

Assenza rete

 


Non potrò aggiornare il blog per qualche giorno, per assenza di connessione. Spero mi venga risolto il problema al più presto. Mi scuso. 

sabato 20 maggio 2023

Leonardo Gori, “La libraia di Stalino” ed. 2023

                                                                Casa Nostra. Qui Italia

                                            cento sfumature di giallo

Leonardo Gori, “La libraia di Stalino”

Ed. Tea, pagg. 256, Euro 16,00

    Prepariamoci ad un salto indietro nel tempo, in questo nuovo romanzo di Leonardo Gori che ha il capitano Bruno Arcieri come protagonista. Lo abbiamo visto attraversare “La lunga notte” dell’8 settembre 1943, così drammatica per tutti gli italiani, quella che trasformerà in nemici i nostri alleati di prima, e lo troviamo ora in missione sul fronte russo, nel dicembre del 1941. Non è il tempo breve del crollo di ogni illusione, ma una manciata di giorni che servono per aprire gli occhi ad Arcieri, per confermargli sospetti vaghi, per aggiungere una dimensione di indicibile orrore a quello ordinario della guerra.

     Stalino, la città dai molti nomi in Ucraina. Si chiamava Aleksandrovka, poi Yuzivka, poi Stalin, Stalino, oggi Donetsk- una delle tante città dell’Unione Sovietica a cui era stato dato il nome del ‘piccolo padre’, niente a che vedere, dunque, con Stalingrado, teatro della tremenda battaglia dal luglio del 1942 al marzo 1943. Nel dicembre del 1941, quando il capitano Arcieri arriva a Stalino, ufficialmente per un’indagine sulla scomparsa di materiale medico e in realtà per scovare una spia inglese di cui sono stati intercettati dei messaggi, i tedeschi spadroneggiano ancora, si comportano con la solita arroganza nei confronti degli alleati italiani e con la solita fredda crudeltà nei confronti dei nemici. Eppure si avverte qualcosa nell’aria, è come se ci fosse un nemico invisibile- da quegli uomini armati biancovestiti che sembrano uscire dal nulla alle audaci donne pilota che scendono con i loro aerei a bassissima quota, alle temperature rigide a cui né gli italiani né i tedeschi sono abituati (il Generale Inverno non aveva forse già sconfitto Napoleone?)- che riuscirà prima o poi ad avere il sopravvento.


     Il gelo, prima di tutto. È il gelo che Bruno Arcieri deve affrontare, e gli capita spesso di ringraziare mentalmente il soldato che gli ha dato una sciarpa di lana da mettersi in testa. Il gelo che impedisce di seppellire i cadaveri perché è impossibile scavare il terreno. L’ospedale militare, poi, dove i medici italiani curano soldati e civili senza distinzione- odore di marcio, di cancrena, di sangue, di morte. Certo che, quando si può, si ruba il materiale sanitario. Soprattutto si ruba ai tedeschi che hanno medicinali di cui gli italiani sono sprovvisti. E nessuno si sente in colpa- lo schermo dietro cui si ripara Arcieri non convince nessuno. Ci sono altre irregolarità, nella postazione di Stalino. Ci sono delle donne che rallegrano l’atmosfera. Due di loro moriranno- come? perché? la coincidenza che muoiano poco dopo l’arrivo di Bruno è strana. C’è poi la figura singolare della libraia del titolo, figlia di un italiano di Crimea che aveva una libreria a Stalino- il tetto della libreria non c’è più e lei, Irina, cerca di mettere in salvo i libri portandoli al medico che dirige l’ospedale.


    Il capitano Arcieri è venuto a Stalino per stanare una spia che- così diceva nel messaggio cifrato- aveva importanti rivelazioni da fare. Quello che scopre va al di là di qualunque possibile immaginazione, la guerra è una cosa, questo è altro. La guerra rispetta certi codici d’onore, in quell’album di fotografie che gli viene dato in consegna non esiste alcun senso etico, né onore o umanità. È caduta la barriera che separa il Bene dal Male ed esiste solo il Male, quello assoluto. E Bruno Arcieri è sconvolto. Può soltanto combattere da singolo contro questo Male, può solo fare la sua parte contravvenendo agli ordini, perché lui ha una coscienza.

    “La libraia di Stalino” è forse uno dei più belli, tra i romanzi della serie- per l’accurata ambientazione, frutto di approfondita ricerca, per la varietà dei dilemmi psicologici ed etici vissuti in prima persona dai diversi personaggi, per quel continuo contrasto tra la realtà della guerra che sta vivendo Bruno Arcieri e il ricordo della dolcezza di Firenze dove la distruzione non è ancora arrivata, per la drammaticità del momento storico che per certi versi avvertiamo ormai lontano e per altri ancora così vicino. Perché la Storia- come diceva Vico- è una serie di corsi e ricorsi.

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mercoledì 17 maggio 2023

Jane Gardam, “L’eterno rivale” ed. 2023

                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

Jane Gardam, “L’eterno rivale”

Ed. Sellerio, trad. Federica Oddera, pagg. 282, Euro 15,00

    Ecco finalmente il terzo volume della trilogia di Jane Gardam, dopo “Figlio dell’Impero britannico” e “L’uomo dal cappello di legno”. Lo aspettavamo, per completare il quadro dei personaggi principali- Sir Edward Feathers era il protagonista del primo, sua moglie Betty del secondo e pensavamo che Sir Terence Veneering, anche lui avvocato di fama ed eterno rivale di Feathers, fosse il personaggio principale di questo ultimo romanzo. E lo è, ma, come vedremo, fino a un certo punto.

   Per l’edizione italiana si è scelto un titolo che anticipasse proprio questo, il soggetto del libro e la rivalità fra i due giganti dell’avvocatura. Il titolo originale inglese è, invece, “Last friends”, che tinge di tristezza la conclusione della trilogia, come ben dice l’inizio stesso: I Titani erano scomparsi. Avevano esaurito i loro scontri. I due rivali (rivali non solo nell’esercizio della legge ma anche in amore perché Terry Veneering aveva amato la moglie di Edward Feathers) erano diventati amici nella vecchiaia, dopo aver scoperto di essere vicini di casa nel Dorset dove si erano ritirati a vivere, ed erano morti a poco tempo di distanza.


     Il libro inizia con il servizio funebre per Edward Feathers, soprannominato Filth, acronimo di Failed in London, Try in Hong Kong (entrambi i due giganti, come altri dei loro conoscenti che appaiono in questa pagine, avevano vissuto e lavorato a Hong Kong). Si respira un’aria da sopravvissuti con la presenza dell’anziana Dulcie e di Fred Fiscal-Smith- sono molto vecchi entrambi, fuori posto nel mondo contemporaneo fatto di cellulari (che naturalmente loro non hanno) e di posta elettronica (che non sono capaci di usare), e finiscono per rubare la scena con un’avventura semi-comica che avrà come seguito una sorta di litigio fra i due e un inatteso ‘happy ending’ rosa. Tra reminiscenze del passato e spettri di case altrettanto vecchie quanto i loro abitanti passati a miglior vita, affiora la storia di Terry, figlio di un russo arrivato con un circo e di una ragazza di forte carattere che vendeva carbone per mantenere figlio e marito, immobilizzato a letto dopo una caduta rovinosa (era veramente una spia russa?). Terry non aveva avuto una vita facile- straordinariamente bello con quei capelli quasi bianchi e la statura che lo faceva sembrare più adulto, sarebbe dovuto salire sulla nave che trasportava in Canada i bambini inglesi fatti evacuare dopo i primi pesanti bombardamenti su Londra. Invece era scappato per ritornare casa, salvandosi da morte certa perché la nave era affondata, colpita da un U-boot. E però non aveva ritrovato né la casa né i genitori, caduti sotto le bombe. Era intelligentissimo, oltre ad avere prestanza fisica e facilità ad apprendere le lingue, ed era fortunato- in qualche maniera aveva studiato e poi, dopo un inizio faticoso e i primi scontri con Old Filth, si era costruito una carriera.

Bambini sopravvissuti all'affondamento della City of Benares

    Lo stile narrativo di Jane Gardam ci conquista sempre ma, se un lettore si avvicinasse a lei con questo romanzo, senza aver letto gli altri, probabilmente non ne andrebbe neppure in cerca. Il valore de “L’eterno rivale” è nel completare il quadro, ma il libro non è bello quanto gli altri due che ci avevano entusiasmato. Veniamo a sapere dell’infanzia di Terry ma non c’è molto riguardo al matrimonio con la bellissima cinese Elsa e pochissimo riguardo al figlio. Avevamo conosciuto Terence Veneering dal punto di vista di Old Filth e della moglie, ma non sentiamo di conoscerlo meglio dopo questo terzo romanzo e, per quanto ci possa piacere allargare il quadro con gli altri due personaggi, Dulcie e Fiscal-Smith, che erano stati amici di entrambi, ci infastidiscono anche un poco perché rubano la nostra attenzione.



sabato 13 maggio 2023

Dido Michielsen, “L’isola della memoria” ed. 2023

                                              Voci da mondi diversi. Paesi Bassi



Dido Michielsen, “L’isola della memoria”

Ed. Nord, trad. A. Storti, pagg. 352, Euro 19,00

 

    I primi coloni olandesi erano arrivati nel 1600 nell’isola di Giava. Come per tutti i colonizzatori, ‘loro’, i bianchi, i padroni, erano superiori agli indigeni, considerati poco più che selvaggi con nessun riguardo per la loro cultura, diversa da quella del mondo occidentale e incomprensibile per i nuovi arrivati.

Se è impossibile negare i progressi portati dai colonizzatori, è altrettanto impossibile non riconoscere i lati negativi, troppo spesso trascurati, anzi peggio, neppure considerati, soprattutto per quello che riguarda i loro rapporti con le donne. Il clima di Giava era impietoso, il viaggio, prima dell’apertura del canale di Suez, durava anche tre mesi, non era immaginabile che le donne olandesi raggiungessero i loro uomini. E la soluzione pareva normalissima- gli olandesi si sceglievano una donna (in genere una ragazza molto giovane) che faceva loro da moglie, da madre dei loro figli, da governante, da serva. Si chiamavano nyai, queste donne che erano amanti di uno straniero, e che erano un gradino più su delle munci, amanti di un militare. In genere erano belle, di una bellezza esotica, e si illudevano- tutte- che il loro uomo dalla carnagione rosea e dagli strani capelli gialli le avrebbe sposate, avrebbe riconosciuto i loro figli meticci, indoeuropei. La realtà, poi, era devastante. Spesso, troppo spesso, dovevano abbandonare i figli che non venivano riconosciuti dai padri ma a cui veniva dato un cognome simile, forse riuscivano a diventare la nyai di un altro tuan (se erano ancora abbastanza giovani), per lo più vivevano nell’indigenza, respinte dalla famiglia di origine.


    Dido Michielsen, nata ad Amersfoort nei Paesi Bassi, è lei stessa discendente di una nyai ed è parzialmente la storia della sua trisavola che racconta in questo libro, il suo primo romanzo. Il racconto della protagonista è filtrato attraverso quello di un’altra donna che lo scrive in olandese e che diventa il suo strumento in un gioco di rovesciamento di ruoli. Perché la protagonista, nata nel 1850, si chiama Piranti, che in giavanese significa ‘strumento’- sua madre forse sperava che lei fosse uno strumento per migliorare la loro vita? Quando, a sedici anni, Piranti rifiuta un matrimonio combinato, fugge di casa ed è lei ad iniziare il corteggiamento di un capitano olandese di ottima famiglia. Lui le cambierà il nome, chiamandola Isah (un chiaro segno di supremazia e noi pensiamo a Venerdì di Robinson Crusoe), lei lo chiamerà Gey, il primo dei suoi due cognomi.


    Gey è gentile, la tratta bene, sembra che la ami. Isah fa di tutto per rendergli la vita confortevole, dal preparargli i piatti europei che lui predilige al coltivare il giardino. Quando resta incinta, lui non la fa abortire, né la prima né la seconda volta, anche se non riconosce la paternità delle figlie. Isah si illude. Vuole credere che sia per sempre. Finché deve risvegliarsi dal sogno. Gey è come tutti gli altri uomini, forse peggio ancora- l’ha usata, ora la sostituirà con una donna del suo paese e la getterà via. E le bambine? Non è un problema suo.

    Non è solo solidarietà femminile che ci unisce a Isah. Non è solo una profonda compassione per quello che ha passato e che deve passare, per un’illusione perduta e per una fiducia mal riposta. È ammirazione per la tempra di questa donna capace di grande amore, per un uomo che non la merita e che noi disprezziamo insieme a lei, e soprattutto per le figlie. Perché non c’è amore più grande di quello che si manifesta rinunciando al proprio legame con l’essere amato per la sua felicità e il suo bene.

  


Il racconto di Isah procede- Isah ha sessant’anni quando affida la sua storia a Canting che la trascrive, dando voce a tutte le nyai che vivono nell’ombra, che non sono mai esistite, anonime madri di migliaia di indo-europeanen dalla pelle più chiara della loro.

“Perdonami, Isah, ma la tua storia dà voce anche a tutte quelle donne. Pubblicarla è un modo per dare un senso alla tua vita, anche se è già finita.”

    Una storia commovente e appassionante, un affresco storico che affiora a poco a poco come da uno dei tessuti batik a cui lavorava la madre di Isah.


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martedì 9 maggio 2023

Sara De Simone, “Nessuna come lei” ed. 2023

                                                          Casa Nostra. Qui Italia

                                                       biografia romanzata


Sara De Simone, “Nessuna come lei”

Ed. Neri Pozza, pagg. 391, Euro 22,00

 

   Virginia. C’è una sola Virginia nel mondo della letteratura. È proprio lei, Virginia Woolf che da ragazza portava il cognome Leslie, ma conosciuta solo con quello del marito Leonard. Gli amici li chiamavano ‘i Lupi’, soprattutto dopo che avevano fondato la loro propria casa editrice, la Hogarth Press.

    Katherine, nata Beauchamp in Nuova Zelanda, aveva preso il cognome Mansfield quando aveva iniziato a pubblicare i primi racconti. Quando si innamorò del critico John Middleton Murry, nel 1911, per poi sposarlo nel 1918, aveva già un matrimonio (non consumato) alle spalle e un figlio mai nato, frutto dell’amore per un musicista ed erano molti anni che ormai viveva in Europa.

    Quando si conobbero, nel 1916, Virginia aveva 34 anni e Katherine sei anni di meno. Virginia era scontrosa, scherzava su questa donna che “la inseguiva” da parecchio tempo, desiderosa di incontrarla. Si incontrarono, poi, nel salotto di Lytton Strachey, intellettuale, raffinato, uno dei primi membri del circolo di Bloomsbury. E, nonostante la diffidenza di Virginia, divennero amiche.


    Erano diversissime l’una dall’altra, tanto era piena di vita ed effervescente Katherine, tanto era schiva e ritrosa Virginia. Eppure entrarono subito in sintonia perché le univa la letteratura- scrivere era la cosa più importante, per entrambe. Guardavano il mondo pensando a come ne avrebbero scritto, si scambiavano impressioni sulle opere di altri scrittori che leggevano, su libri che dovevano recensire, si capivano. ‘Nessuna come lei’- per Katherine nessuna era come Virginia, per Virginia nessuna era come Katherine.


    Eppure non fu un’amicizia facile. Sara De Simone ha fatto un lavoro splendido per consegnarci questo libro che ripercorre le tappe di questa amicizia, documentandola con le lettere che le due scrittrici si sono scambiate, con testimonianze di altri, intessendo una trama e un ordito che ci offrono un’immagine finale che non è solo quella privata dei sette anni (Katherine morì nel 1923) di amicizia ma anche di quello che succedeva intorno a loro e di un ambiente letterario che doveva diventare un mito.

    Seguiamo la nascita dei racconti dell’una e dei romanzi dell’altra, leggiamo dei loro dubbi e momenti di scoramento quando sembra che l’ispirazione taccia o quando l’una o l’altra non erano in grado di scrivere, obbligate al riposo totale per malattia. Perché erano fragili entrambe, per cause diverse. Per Virginia era il sistema nervoso a destare preoccupazione, per Katherine la tisi contro cui lottò con tutte le sue forze, sperimentando ogni possibile cura, peregrinando da un paese all’altro in cerca di sole e di un clima ideale.

   Veniamo a sapere tutto o quasi di loro- della loro infanzia, del rapporto con i genitori e con i fratelli e le sorelle, con i mariti (quanto diverso l’affidabile Leonard dall’egoista John Middleton Murray), con le persone di servizio (insostituibile l’amica di Katherine, Ida dai molti nomi, l’unica su cui potesse contare, sempre e ovunque). Le seguiamo nelle case in cui hanno abitato, negli spostamenti di Katherine verso Sud, mentre Virginia si offendeva perché l’amica non rispondeva alle sue lettere e non capiva quanto male stesse Katherine, nonostante la sua voglia di reagire, di vedere sempre il lato positivo, di ironizzare su tutto, anche sul suo male. E leggiamo anche stralci delle loro recensioni degli scrittori del momento (Joyce, insopportabile; Lawrence, troppo interessato al sesso; Murray, noioso).


    Era invidiosa, Virginia, del successo di Katherine? Voleva essere l’unica grande scrittrice sulla scena? Ad essere sinceri, sembra proprio così, leggendo quello che scrive dell’amica, a volte correggendosi, molto spesso lasciando trapelare di masticare amaro.

    A fine libro- un libro veramente molto bello che si legge come un affascinante romanzo imperniato su due protagoniste femminili- la nostra simpatia (confessiamolo) va tutta a Katherine. Per la sua forza vitale, per il suo disprezzo per le convenzioni, per la sua libertà interiore, per la sua spregiudicatezza. E lungi da noi l’idea di paragonare la bravura di due grandi scrittrici.

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lunedì 8 maggio 2023

Caterina Cardona, “Un matrimonio epistolare” ed. 2023

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia


Caterina Cardona, “Un matrimonio epistolare”

Ed. Sellerio, pagg. 195, Euro 14,00

 

    Un matrimonio singolare, il ‘matrimonio epistolare’ di Don Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, e di Alexandra, baronessa di von Wolff-Stomersee, che rispondeva al nomignolo di Licy. Verrebbe da dire che gli opposti si attraggono. Lui solitario, ferocemente attaccato alla sua terra, alla sua Palermo, alla casa avita, al sole del Sud. Lei una principessa dei ghiacci, psicologa innamorata del suo lavoro (fu lei ad introdurre Freud in Italia), attaccata altrettanto ferocemente alla sua propria dimora avita, il castello di Stomersee in Lettonia, alle notti chiare del Nord. Erano anche parenti acquisiti, Giuseppe e Licy, perché la madre di lei, la cantante italiana Alice Barbi, aveva sposato in seconde nozze lo zio diplomatico di Giuseppe. Si sposarono nel 1932, lei trentottenne e divorziata, lui due anni di meno di lei, molto legato alla madre.

    Per una decina d’anni Giuseppe e Licy vissero brevi periodi insieme e lunghi mesi lontani, ognuno a casa sua, con un fitto scambio epistolare che Caterina Cardona esamina in questo interessante libro ripubblicato da Sellerio dopo una prima edizione nel 1987. Singolari anche queste lettere, da cui balza fuori il carattere di ognuno, lasciandoci con tanti punti interrogativi.


Sono scritte in francese, prima di tutto (sono tradotte a pié pagina), lingua che entrambi conoscevano bene, quasi avessero bisogno di un terreno neutro su cui incontrarsi. E il tono delle lettere è diverso, pur descrivendo entrambi la loro vita quotidiana. Quella di lui, però, è la vita di un nobile palermitano per cui- diciamolo apertamente- qualunque occupazione è disdicevole (quanto ci ricorda il principe Fabrizio Salina, ispirato al suo bisnonno e protagonista di quel capolavoro che è “Il Gattopardo”). Quando Don Giuseppe si metterà a scrivere il suo unico romanzo, lo farà- come dice lui stesso- per non essere da meno dei cugini Piccolo, poeti, studiosi, artisti. E dobbiamo usare ancora una volta la parola ‘singolare’ pensando al destino che non permise a Tomasi di Lampedusa di vedere il romanzo pubblicato nel 1958 da Feltrinelli, dopo essere stato rifiutato da Mondadori e da Einaudi (che errore di giudizio, quello di Vittorini, che respinse anche “Il tamburo di latta” di Gunther Grass e “Il dottor Zivago” di Pasternak) e di godere del premio Strega che gli fu conferito nel 1959- Giuseppe Tomasi di Lampedusa era morto nel 1957 per un tumore ai polmoni.

   La vita di Licy, nel castello di Stomersee, è impegnata nel suo lavoro di psicanalista e descrive nei dettagli la cura di una donna con pulsioni suicide/omicide- anche cinque o sei ore di colloqui stressanti che la lasciavano prosciugata.

Alexandra Wolff

La voce di lui suona più infantile alle nostre orecchie, più forte e volitiva quella di lei. Nessuno dei due rivela apertamente uno dei motivi di queste vite lontane, vi accennano entrambi con discrezione, come per non offendere nessuno- la presenza ingombrante della madre di Giuseppe e il suo attaccamento per lei. Era impossibile per Licy accettare di vivere con la suocera. Parlano, invece, con una vera passione, delle loro case, quasi esse fossero amanti da cui non potevano separarsi. La guerra è più silenziosa nelle lettere di Licy, risuona dei bombardamenti in quelle di Giuseppe che parla di vetri infranti e impossibili da sostituire. Per entrambi la perdita della casa, requisita prima dai nazisti e poi dall’Armata Rossa quella di Licy, distrutta dal tremendo bombardamento del maggio 1943 quella di Giuseppe, fu pari a quella di una persona amata, fu come perdere le proprie radici, come restare orfani.

    Caterina Cardona fa un lavoro eccellente unendo stralci delle lettere ad una narrativa che illustra il periodo o le persone a cui le lettere si riferiscono, permettendoci di guardare da vicino- senza mai violarne l’intimità- la vita di uno scrittore che, con un unico romanzo, si è imposto come uno dei più grandi d’Italia e di Europa.

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venerdì 5 maggio 2023

Rosa Liksom, “Al di là del fiume” ed. 2023

                                                     vento del Nord

      seconda guerra mondiale

Rosa Liksom, “Al di là del fiume”

Ed. Iperborea, trad. Delfina Sessa, pagg. 273, Euro 18,00

   Colonne di profughi in marcia. Quante ne abbiamo viste, negli anni, quante continuiamo a vederne, composte per lo più da vecchi, donne e bambini, carichi di fagotti, con vesti malconce e facce di una tristezza indicibile.

È il settembre del 1944, nel libro di Rosa Liksom, la scrittrice nata in un villaggio della Lapponia in una famiglia di allevatori di renne di cui abbiamo già letto “Scompartimento n.6” e “La moglie del colonnello”. È stata ordinata una grande evacuazione in tutta la regione al confine tra Finlandia e Svezia, già occupata dai nazisti ed ora prossima ad essere invasa dai russi. I profughi devono passare il fiume che è al confine- di là c’è un mitico Occidente, terra dell’abbondanza, della ricchezza e della pace.

  La ragazzina che è l’io narrante ha tredici anni e si mette in marcia con l’amica Katri, un’altra ragazza ed un bambino di una fattoria vicina. Soprattutto inizia questa fuga con la sua mandria di mucche- è importantissimo mettere in salvo anche loro. Non solo perché sono la loro ricchezza, ma anche perché per lei sono proprio come ‘persone’, ognuna ha un nome, ognuna ha il suo carattere. Questo è quello che ci colpisce subito, quando iniziamo a leggere. Sì, la ragazzina parla anche del padre che è al fronte, della madre, che è incinta ed è fragile mentalmente, dello Zio che le ha insegnato tante cose e che scorterà la mamma al di là del fiume, ma chi le sta a cuore sono principalmente le mucche.


E noi, che già fatichiamo a distinguere se i nomi delle persone si riferiscano ad un uomo o a una donna, impieghiamo un po’ di tempo per capire che la Ilona che le sorride non è una sua amica, o meglio, è una sua amica ma è una mucca. Lei parla con loro e sembra che loro la capiscano quando la guardano con i grandi occhi mansueti. In una scena straziante in cui muore un vitellino e la mucca-madre cerca di uccidersi lanciandosi contro il filo spinato, dimentichiamo anche noi che questi sono animali e ci commuove la sensibilità con cui la protagonista trova parole di consolazione per la mucca.

    Faticano le bestie ad andare avanti, perché non sono abituate a camminare su terreno duro, faticano le persone, dovranno affrontare la fame, la sete, il freddo, le umiliazioni una volta che arrivano nei campi profughi degli svedesi dove devono sottoporsi a disinfestazioni ed esami medici con esplorazioni del loro corpo per accertare che non introducano malattie nel paese che li ospita. E nel frattempo lei ha perso le tracce della mamma e dello zio e cerca di rintracciarli. I ruoli si sono invertiti, la ragazzina che diventa adulta in questa fuga diventa anche la madre di sua madre e poi la madre del fratellino che intanto è nato ed è chiaro che il suo destino è segnato.


   L’andamento della narrazione è lento come il passo di questa evacuazione, ripetitivo come i giorni tutti uguali di un tempo senza tempo in attesa di giorni migliori e della fine della guerra e del ritorno a casa. Casa: troveranno le loro case, quando potranno tornarci? Eppure quello che rifulge è lo spirito combattivo della protagonista, il suo cuore grande che gioisce delle meraviglie della natura, che si illumina riflettendo la luce delle stelle di cui lo zio le ha insegnato il nome, che ha fame di apprendere ed è felice di frequentare le lezioni nell’improvvisata scuola del campo, che ha per amici persone, animali, fiori. Solo così si può sopravvivere al Male del mondo.

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martedì 2 maggio 2023

Georgette Heyer, “Una ragazza adorabile” ed. 2023

                        Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

  romanzo di formazione

  chick-lit

Georgette Heyer, “Una ragazza adorabile”

Ed. Astoria, trad. Cecilia Maria Vallardi, pagg. 416, Euro 19,00

 

     Il giovane Lord Sheringham vuole sposarsi. Non è affatto perché sogna le dolcezze di una vita famigliare, ha proprio bisogno di sposarsi se vuole entrare in possesso del suo patrimonio legato al compimento dei venticinque anni, a meno che convoli a nozze prima. E tuttavia viene respinto dalla bellissima Isabella Milborne, “l’Impareggiabile”. Furibondo, Lord Sheringham (Sherry per gli amici) giura che sposerà la prima donna che incontra. Il caso vuole che incontri Hero, non ancora diciassettenne, che lo ama da quando era una bambina. Hero è orfana, vive con una zia e tre cugine piuttosto bruttine- nella tipica situazione dei romanzi inglesi di fine ottocento, Hero, parente povera a mala pena tollerata, ha due alternative: fare l’istitutrice in una scuola di Bath oppure sposare il curato. Quasi non crede alla sua fortuna, pensa che Sherry si stia prendendo gioco di lei, quando questi le propone di fuggire insieme a lui per sposarlo. Hero non ci pensa su due volte a salire sul calesse di Sherry, nascondendosi ai suoi piedi per non essere vista.


      Fino a qui la situazione ricalca dei modelli noti- Lord Sheringham è uno scapestrato ma un uomo d’onore che si preoccupa della rispettabilità della giovanissima Hero a cui dà il soprannome (molto adeguato) di Kitten, micetto, si procura una licenza e la sposa. Adesso incomincia il bello di questa deliziosa commedia di maniera che fa rivivere la fiaba di Cenerentola (con accompagnamento delle sorelle cattive) o il personaggio di Eliza Doolittle di G. B. Shaw con anche tutta la vivacità delle commedie di Oscar Wilde. Perché Sherry diventa una sorta di Pigmalione per la piccola Hero a cui deve insegnare proprio tutto delle regole del bel mondo, da come si deve vestire a come comportarsi, quali siano le persone che può frequentare e quelle che deve evitare. Hero ci conquista (come conquista tutti gli amici di Sherry, scapestrati quanto lui) con la sua innocenza, la sua curiosità, la sua arguzia, la sua inesauribile voglia di nuove esperienze, la sua gioia infantile davanti a tutto quello che per lei è nuovo, quasi una Candide alla scoperta di Londra. E naturalmente, essendo lei stessa priva di qualunque artificio, non capta nessun segnale quando è avvicinata da chi vuole raggirarla.

    Il nostro divertimento nella lettura è dato dal doppio registro delle situazioni che, in maniera sottile e intelligente, sottolinea la doppia morale dell’epoca edoardiana. Le trasgressioni più gravi di Hero sono quelle in cui lei non fa altro che ‘copiare’ i comportamenti dell’amato marito, pensando che tutto quello che lui dice e fa vada bene anche per lei. Lui gioca d’azzardo? Lui dice che, quando uno perde, deve continuare a giocare finché la fortuna girerà a suo favore? Che occorre rivolgersi a uno strozzino per pagare i debiti? Ebbene Hero farà lo stesso e toccherà a Sherry toglierla dai guai. Per non dire di quando accetta inviti da donne che dicono di conoscere Sherry- lei si fida, ma come lo conoscono?


    Comunque, se Sherry non si prende abbastanza cura di lei, ci penseranno i suoi amici a farlo e nasceranno altri malintesi, perché c’è un’altra storia d’amore tra corteggiamenti e rifiuti e sfide a duello che scorre parallelamente, in chiave minore. Ci saranno rapimenti, qui pro quo, allontanamenti, riconciliazioni. E questo leggero romanzo a cui una lettura superficiale attribuirebbe il colore ‘rosa’ finisce per essere un doppio romanzo di formazione- della piccola Kitten che ha bisogno di vedere la realtà senza perdere la sua freschezza e di Lord Sheringhan che finisce per innamorarsi della giovane moglie, vedendo da un’altra prospettiva la negatività dei suoi comportamenti.

    Un libro di cui consiglio la lettura. Elegante, divertente, significativo, fresco come la sua protagonista adorabile.

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