Ed. Guanda, trad. V. Raimondi, Pagg. 275, Euro 14,50
Un ospedale fantasma nel mezzo
del nulla in un Sud Africa dai lenti cambiamenti dopo la fine dell’apartheid,
se arrivano dei casi gravi devono essere trasportati nell’ospedale “vero” della
città vicino, perché qui mancano le medicine (abbondano solo i preservativi),
ci sono i macchinari ma manca la corrente, abbondano pure i medici: diventeranno
cinque con l’arrivo del giovane Laurence Waters, uno dei due protagonisti
principali de “Il buon dottore” di Damon Galgut. Appena Frank Elioff, il
dottore che condividerà la stanza con lui, lo vede, pensa, “non durerà”. Non è
solo perché è giovane, è qualcosa nel suo volto, l’aria smarrita e perplessa,
quel dire, “non capisco”, davanti all’inaccettabile realtà che ha davanti.
Laurence, con quel cognome che fa pensare alla limpidezza dell’acqua, a pulizia
dilavante, è come il bambino nella fiaba “Il vestito d’oro dell’Imperatore”,
l’unico che ha il coraggio di smentire una diagnosi della dottoressa Ngema,
capo dell’ospedale, che fa domande di una semplicità allarmante, che protesta
per i furti che nessuno denuncia, perché ha un’incrollabile fiducia che le
persone possano cambiare le cose- la sua è l’innocenza (l’ignoranza?) della
giovinezza che può essere rivoluzionaria oppure devastante. Ed è come se il
confronto con lui spingesse Frank- un divorzio alle spalle, un legame di sesso
con una donna di colore, la colpa di quelle parole, “non è ancora in punto di
morte”, con cui aveva sentenziato la fine del prigioniero torturato- a
comportarsi con maggiore cinismo. E il tema centrale del romanzo di Galgut
diventa quello della menzogna e del tradimento, sia nella politica sia nella
sfera dei rapporti personali. In un rovesciamento di ruoli, Frank, a suo tempo
tradito dal suo migliore amico che era fuggito con sua moglie, tradisce ora
Laurence andando a letto con la sua ragazza- e non anticipiamo un altro
tradimento finale seguito da un altro scambio di ruoli che ci lascia con il
dubbio di chi sia “il buon dottore”. Stilos ha intervistato lo scrittore.
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Galgut a Roma nel 2005 |
La vicenda del suo romanzo è ambientata in una città fantasma, senza
nome, in una homeland. Qual era l’intenzione, nel creare queste homeland?
Le homeland dovevano
essere le pietre d’angolo del sistema apartheid. L’idea alla base di questo
sogno ridicolo era che si potessero prendere delle zone sottosviluppate e farne
dei falsi stati per le tribù nere: a ogni tribù sarebbe stato concesso un
piccolo stato. Agli abitanti sarebbe stata tolta la cittadinanza sudafricana e
gli sarebbe stata data la cittadinanza di questi piccoli stati che avrebbero
avuto una capitale, un esercito, una bandiera e un governo fantoccio. Non ho
dato un nome alla città del romanzo perché non volevo legarla a nessun posto,
volevo che fosse una qualunque di queste capitali, che il lettore immaginasse
quello che voleva.
Sia la homeland sia l’ospedale sono forse dei simboli delle promesse
non adempiute e anche della frattura tra realtà e idealismo?
No, non li ho visti come dei simboli. Per me
rappresentavano due cose: una parte di me li vedeva come l’ambientazione ideale
per un dramma, ma questa ambientazione ha anche la funzione di una metafora, di
un simbolo. E questo simbolo riguarda la condizione del Sudafrica: viviamo
adesso in un momento strano, il passato è alle nostre spalle ma non siamo
ancora arrivati al futuro. Siamo in uno stato di sospensione e volevo che
l’ambientazione comunicasse questa
sensazione di essere in un non-luogo.
La dottoressa di colore, Ngema, è sulla sessantina. Dove si è laureata?
Perché i neri non potevano frequentare l’università in Sud Africa al tempo in
cui lei era giovane, vero?
La dottoressa ha
vissuto in esilio per gran parte della sua vita, come molti intellettuali neri.
A quel tempo era preferibile per i neri vivere in esilio piuttosto che sotto le
leggi dell’apartheid. I neri non avevano passaporto, se volevano andarsene
ottenevano un permesso d’uscita, il permesso per andarsene ma non per tornare
indietro. Avevano dei supporti da parte di organizzazioni internazionali,
moltissimi di loro fecero delle carriere brillanti, molti tornarono dopo il
cambiamento per cercare una vita più vicina alle loro origini. Durante
l’apartheid il livello dell’istruzione veniva tenuto molto basso per i neri, e
negli anni ‘70 e ‘80 molte scuole nere furono incendiate come simbolo
dell’oppressione. E così pure l’afrikaan veniva rifiutato dagli studenti come
la lingua della gente che li opprimeva.
Come sono i rapporti tra neri e bianchi adesso, 14 anni dopo la fine
dell’apartheid? Si capisce chiaramente quale sia l’atteggiamento del padre di
Frank, mentre quello di Frank è meno chiaro.
Per molti aspetti in
realtà la frattura fra i bianchi e i neri non è molto cambiata. Le divisioni
tra la gente adesso non sono tanto razziali ma di classe, e tuttavia le
differenze di classe seguono da vicino quelle di razza. In effetti la minoranza
bianca ha ancora il potere economico e la grande maggioranza nera non ha i
soldi per muoversi da dove si trova: le township sono ancora lì, e sono nere.
Il Sudafrica appare per lo più uguale a come era. E Frank è una figura strana:
sprezzante del pregiudizio ma anche dell’idealismo. Lo vedo come un
rappresentante della mia generazione, di quelli che non hanno fatto l’apartheid
ma non lo hanno neppure demolito.
Ci sono due figure che rappresentano il Male nel libro, quella di un
bianco- il capitano Moller, e quella di un nero- l’ex dittatore.
Moller è un tipo molto
riconoscibile, era il tipo di persona che operò sia attivamente sia
ideologicamente per il governo della minoranza bianca e naturalmente molte di
quelle persone sono ancora nell’esercito o nel governo. Il brigadiere nero è
diverso: è come il fantasma di un dittatore africano che sentiamo aleggiare in
attesa di toccare terra. Si può dire che il bianco rappresenta il passato e il
nero è una figura minacciosa del futuro.
Uno dei temi del libro è quello del tradimento: il tradimento personale
rappresenta anche un tradimento più ampio, un tradimento politico?
E’ una cosa che non dico
direttamente ma spero proprio che i lettori facciano da soli questo
collegamento.
I due dottori che vengono da Cuba: come venivano considerati, questi
stranieri che arrivavano da Cuba per motivi idealistici o politici?
Negli anni 1996-97 il governo sudafricano
ha fatto arrivare due centinaia di dottori cubani per risolvere la crisi del
personale e questi medici furono sparpagliati negli ospedali di tutto il paese,
spesso non sapevano neppure una parola di inglese. Fu una mossa controversa, ma
non cercavo di commentare questo passo del governo, mi piaceva la stranezza di
questa coppia dislocata nell’ ospedale fantasma.
C’è un particolare riguardo ad un altro personaggio che non sembra
essere positivo, quello della ragazza afro-americana che si cambia il nome
perché sembri più indigeno.
Anche questa ragazza è
riconoscibile come un tipo che si vede ogni tanto. C’erano molti neri americani
che venivano in Sudafrica, o più genericamente in Africa, in cerca delle loro
radici. Sono figure piuttosto divertenti perché la loro idea dell’Africa non è
vicina alla realtà, e naturalmente la maggior parte di loro torna molto presto
in America e alla vita borghese.
Frank e Laurence: due amici, padre e figlio, ma anche due aspetti dello
stesso personaggio. Laurence è una specie di doppio di Frank?
Sì, la storia del romanzo
è di tipo psicologico, è come una danza di quei due personaggi. Rappresentano
la spaccatura nella mia psiche, una parte che appartiene al futuro e una parte
che è appesantita dal passato. E’ una spaccatura che percorre tutta la mente
bianca del Sudafrica.
L’infermiere nero Tehogo è un personaggio difficile da interpretare, è
una vittima?
Tehogo è qualcuno
danneggiato dalla storia. La sua famiglia era stata uccisa in qualche tumulto,
ma adesso lui svolge un’attività che ha qualcosa di criminale. Come tratti uno
così? Non si può trattare come una vittima perché è uno che non fa il suo
lavoro. E’ una questione etica complessa che fa parte del Sudafrica di adesso.
Uno dei personaggi cita Soweto: Soweto è un nome, collegato ad una
data, il 1976, che segna un momento cruciale per la storia dell’apartheid.
Soweto è la più grande
township in Sudafrica. Ogni città è divisa in due parti, quella bianca e quella
nera, rigorosamente separate. Soweto è la città-ombra nera della città bianca
di Johannesburg. Nel 1976 il tumulto che spazzò il Sudafrica iniziò a Soweto.
Dopo il 1976 il paese non fu più tranquillo.
Nella “mitologia” del Sud Africa, il Presidente De Klerk occupa un
posto importante quanto Nelson Mandela?
No, assolutamente no,
anche se forse è così per i bianchi. Alcuni hanno dato credito a De Klerk per
aver avuto il coraggio di smantellare l’apartheid ed è vero: se il presidente
precedente, Botha, fosse stato in quella posizione, non avrebbe mai preso
quell’iniziativa. Ma la maggior parte crede- e anche io lo credo- che non ci
fosse altra scelta, non era economicamente possibile continuare. I passi fatti,
le decisioni prese erano una manovra tattica, ma una volta fatto il primo passo
non potevano più controllare i passi seguenti. Non esiste neppure un paragone
con Mandela. Per i bianchi forse sì, perché hanno un disperato bisogno di una
figura bianca da idealizzare. Ma De Klerk sapeva che c’erano gli Squadroni
della Morte. Il presidente Botha, il peggiore leader bianco in assoluto, aveva
istituito uno State Security Council che operava in segreto per mantenere il
controllo negli stati di emergenza, durante gli anni ‘80. Erano gli Squadroni
della Morte che uccidevano gli oppositori politici. De Klerk faceva parte del
Council, non è possibile che non sapesse che cosa succedeva, anche se ha sempre
negato. |
De Klerk |
L’afrikaan, adesso, è una lingua
letteraria? Ed è un motivo politico quello che spinge alcuni scrittori ad usare
l’afrikaan invece dell’inglese?
Non so se ci sia un
motivo politico, è più un motivo di nazionalità. L’afrikaan è adottato
soprattutto da quelli che noi chiamiamo “di colore”, che ha un significato
diverso dallo stesso termine che in America invece è usato per i neri. Da noi i
“coloured” sono i sangue-misto. Sotto l’apartheid in Sudafrica c’erano i
bianchi, i neri e i “coloured”. Il loro afrikaan è una lingua molto viva,
sovversiva, una lingua rude. Ci sono delle poesie molto belle scritte in
afrikaan, c’è un grande scrittore in afrikaan, Breytenbach, un bianco che fu
imprigionato per aver operato contro lo Stato.
L'articolo è stato pubblicato sulla rivista Stilos