venerdì 12 novembre 2021

Damon Galgut, "Il buon dottore"- Intervista 2005

                                                              Voci da mondi diversi. Africa

Damon Galgut, "Il buon dottore"
Ed. Guanda, trad. V. Raimondi, Pagg. 275, Euro 14,50

   Un ospedale fantasma nel mezzo del nulla in un Sud Africa dai lenti cambiamenti dopo la fine dell’apartheid, se arrivano dei casi gravi devono essere trasportati nell’ospedale “vero” della città vicino, perché qui mancano le medicine (abbondano solo i preservativi), ci sono i macchinari ma manca la corrente, abbondano pure i medici: diventeranno cinque con l’arrivo del giovane Laurence Waters, uno dei due protagonisti principali de “Il buon dottore” di Damon Galgut. Appena Frank Elioff, il dottore che condividerà la stanza con lui, lo vede, pensa, “non durerà”. Non è solo perché è giovane, è qualcosa nel suo volto, l’aria smarrita e perplessa, quel dire, “non capisco”, davanti all’inaccettabile realtà che ha davanti. Laurence, con quel cognome che fa pensare alla limpidezza dell’acqua, a pulizia dilavante, è come il bambino nella fiaba “Il vestito d’oro dell’Imperatore”, l’unico che ha il coraggio di smentire una diagnosi della dottoressa Ngema, capo dell’ospedale, che fa domande di una semplicità allarmante, che protesta per i furti che nessuno denuncia, perché ha un’incrollabile fiducia che le persone possano cambiare le cose- la sua è l’innocenza (l’ignoranza?) della giovinezza che può essere rivoluzionaria oppure devastante. Ed è come se il confronto con lui spingesse Frank- un divorzio alle spalle, un legame di sesso con una donna di colore, la colpa di quelle parole, “non è ancora in punto di morte”, con cui aveva sentenziato la fine del prigioniero torturato- a comportarsi con maggiore cinismo. E il tema centrale del romanzo di Galgut diventa quello della menzogna e del tradimento, sia nella politica sia nella sfera dei rapporti personali. In un rovesciamento di ruoli, Frank, a suo tempo tradito dal suo migliore amico che era fuggito con sua moglie, tradisce ora Laurence andando a letto con la sua ragazza- e non anticipiamo un altro tradimento finale seguito da un altro scambio di ruoli che ci lascia con il dubbio di chi sia “il buon dottore”. Stilos ha intervistato lo scrittore.

 

Galgut a Roma nel 2005

 La vicenda del suo romanzo è ambientata in una città fantasma, senza nome, in una homeland. Qual era l’intenzione, nel creare queste homeland?

     Le homeland dovevano essere le pietre d’angolo del sistema apartheid. L’idea alla base di questo sogno ridicolo era che si potessero prendere delle zone sottosviluppate e farne dei falsi stati per le tribù nere: a ogni tribù sarebbe stato concesso un piccolo stato. Agli abitanti sarebbe stata tolta la cittadinanza sudafricana e gli sarebbe stata data la cittadinanza di questi piccoli stati che avrebbero avuto una capitale, un esercito, una bandiera e un governo fantoccio. Non ho dato un nome alla città del romanzo perché non volevo legarla a nessun posto, volevo che fosse una qualunque di queste capitali, che il lettore immaginasse quello che voleva.


 Sia la homeland sia l’ospedale sono forse dei simboli delle promesse non adempiute e anche della frattura tra realtà e idealismo?

     No, non li ho visti come dei simboli. Per me rappresentavano due cose: una parte di me li vedeva come l’ambientazione ideale per un dramma, ma questa ambientazione ha anche la funzione di una metafora, di un simbolo. E questo simbolo riguarda la condizione del Sudafrica: viviamo adesso in un momento strano, il passato è alle nostre spalle ma non siamo ancora arrivati al futuro. Siamo in uno stato di sospensione e volevo che l’ambientazione comunicasse  questa sensazione di essere in un non-luogo.

 La dottoressa di colore, Ngema, è sulla sessantina. Dove si è laureata? Perché i neri non potevano frequentare l’università in Sud Africa al tempo in cui lei era giovane, vero?

      La dottoressa ha vissuto in esilio per gran parte della sua vita, come molti intellettuali neri. A quel tempo era preferibile per i neri vivere in esilio piuttosto che sotto le leggi dell’apartheid. I neri non avevano passaporto, se volevano andarsene ottenevano un permesso d’uscita, il permesso per andarsene ma non per tornare indietro. Avevano dei supporti da parte di organizzazioni internazionali, moltissimi di loro fecero delle carriere brillanti, molti tornarono dopo il cambiamento per cercare una vita più vicina alle loro origini. Durante l’apartheid il livello dell’istruzione veniva tenuto molto basso per i neri, e negli anni ‘70 e ‘80 molte scuole nere furono incendiate come simbolo dell’oppressione. E così pure l’afrikaan veniva rifiutato dagli studenti come la lingua della gente che li opprimeva.


 Come sono i rapporti tra neri e bianchi adesso, 14 anni dopo la fine dell’apartheid? Si capisce chiaramente quale sia l’atteggiamento del padre di Frank, mentre quello di Frank è meno chiaro.

      Per molti aspetti in realtà la frattura fra i bianchi e i neri non è molto cambiata. Le divisioni tra la gente adesso non sono tanto razziali ma di classe, e tuttavia le differenze di classe seguono da vicino quelle di razza. In effetti la minoranza bianca ha ancora il potere economico e la grande maggioranza nera non ha i soldi per muoversi da dove si trova: le township sono ancora lì, e sono nere. Il Sudafrica appare per lo più uguale a come era. E Frank è una figura strana: sprezzante del pregiudizio ma anche dell’idealismo. Lo vedo come un rappresentante della mia generazione, di quelli che non hanno fatto l’apartheid ma non lo hanno neppure demolito.

 Ci sono due figure che rappresentano il Male nel libro, quella di un bianco- il capitano Moller, e quella di un nero- l’ex dittatore.

   Moller è un tipo molto riconoscibile, era il tipo di persona che operò sia attivamente sia ideologicamente per il governo della minoranza bianca e naturalmente molte di quelle persone sono ancora nell’esercito o nel governo. Il brigadiere nero è diverso: è come il fantasma di un dittatore africano che sentiamo aleggiare in attesa di toccare terra. Si può dire che il bianco rappresenta il passato e il nero è una figura minacciosa del futuro.

 Uno dei temi del libro è quello del tradimento: il tradimento personale rappresenta anche un tradimento più ampio, un tradimento politico?

    E’ una cosa che non dico direttamente ma spero proprio che i lettori facciano da soli questo collegamento.

 I due dottori che vengono da Cuba: come venivano considerati, questi stranieri che arrivavano da Cuba per motivi idealistici o politici?

     Negli anni 1996-97 il governo sudafricano ha fatto arrivare due centinaia di dottori cubani per risolvere la crisi del personale e questi medici furono sparpagliati negli ospedali di tutto il paese, spesso non sapevano neppure una parola di inglese. Fu una mossa controversa, ma non cercavo di commentare questo passo del governo, mi piaceva la stranezza di questa coppia dislocata nell’ ospedale fantasma.


 C’è un particolare riguardo ad un altro personaggio che non sembra essere positivo, quello della ragazza afro-americana che si cambia il nome perché sembri più indigeno.

      Anche questa ragazza è riconoscibile come un tipo che si vede ogni tanto. C’erano molti neri americani che venivano in Sudafrica, o più genericamente in Africa, in cerca delle loro radici. Sono figure piuttosto divertenti perché la loro idea dell’Africa non è vicina alla realtà, e naturalmente la maggior parte di loro torna molto presto in America e alla vita borghese.

 Frank e Laurence: due amici, padre e figlio, ma anche due aspetti dello stesso personaggio. Laurence è una specie di doppio di Frank?

    Sì, la storia del romanzo è di tipo psicologico, è come una danza di quei due personaggi. Rappresentano la spaccatura nella mia psiche, una parte che appartiene al futuro e una parte che è appesantita dal passato. E’ una spaccatura che percorre tutta la mente bianca del Sudafrica.

 L’infermiere nero Tehogo è un personaggio difficile da interpretare, è una vittima?

    Tehogo è qualcuno danneggiato dalla storia. La sua famiglia era stata uccisa in qualche tumulto, ma adesso lui svolge un’attività che ha qualcosa di criminale. Come tratti uno così? Non si può trattare come una vittima perché è uno che non fa il suo lavoro. E’ una questione etica complessa che fa parte del Sudafrica di adesso.

 Uno dei personaggi cita Soweto: Soweto è un nome, collegato ad una data, il 1976, che segna un momento cruciale per la storia dell’apartheid.

      Soweto è la più grande township in Sudafrica. Ogni città è divisa in due parti, quella bianca e quella nera, rigorosamente separate. Soweto è la città-ombra nera della città bianca di Johannesburg. Nel 1976 il tumulto che spazzò il Sudafrica iniziò a Soweto. Dopo il 1976 il paese non fu più tranquillo.


 Nella “mitologia” del Sud Africa, il Presidente De Klerk occupa un posto importante quanto Nelson Mandela?

      No, assolutamente no, anche se forse è così per i bianchi. Alcuni hanno dato credito a De Klerk per aver avuto il coraggio di smantellare l’apartheid ed è vero: se il presidente precedente, Botha, fosse stato in quella posizione, non avrebbe mai preso quell’iniziativa. Ma la maggior parte crede- e anche io lo credo- che non ci fosse altra scelta, non era economicamente possibile continuare. I passi fatti, le decisioni prese erano una manovra tattica, ma una volta fatto il primo passo non potevano più controllare i passi seguenti. Non esiste neppure un paragone con Mandela. Per i bianchi forse sì, perché hanno un disperato bisogno di una figura bianca da idealizzare. Ma De Klerk sapeva che c’erano gli Squadroni della Morte. Il presidente Botha, il peggiore leader bianco in assoluto, aveva istituito uno State Security Council che operava in segreto per mantenere il controllo negli stati di emergenza, durante gli anni ‘80. Erano gli Squadroni della Morte che uccidevano gli oppositori politici. De Klerk faceva parte del Council, non è possibile che non sapesse che cosa succedeva, anche se ha sempre negato.

De Klerk

 L’afrikaan, adesso, è una lingua letteraria? Ed è un motivo politico quello che spinge alcuni scrittori ad usare l’afrikaan invece dell’inglese?

     Non so se ci sia un motivo politico, è più un motivo di nazionalità. L’afrikaan è adottato soprattutto da quelli che noi chiamiamo “di colore”, che ha un significato diverso dallo stesso termine che in America invece è usato per i neri. Da noi i “coloured” sono i sangue-misto. Sotto l’apartheid in Sudafrica c’erano i bianchi, i neri e i “coloured”. Il loro afrikaan è una lingua molto viva, sovversiva, una lingua rude. Ci sono delle poesie molto belle scritte in afrikaan, c’è un grande scrittore in afrikaan, Breytenbach, un bianco che fu imprigionato per aver operato contro lo Stato.

L'articolo è stato pubblicato sulla rivista Stilos

 

 

                                                                                           

 

 

 

 

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