cento sfumature di giallo
seconda guerra mondiale
Ben Pastor, “La sinagoga degli zingari”Ed.
Sellerio, trad. Luigi Sanvito, pagg. 655, Euro 17,00
Oggi, 11 novembre, il giorno in cui sto
scrivendo, è il compleanno di Martin Bora.
Se
fosse in vita (impossibile), se fosse
un uomo in carne e ossa, compirebbe 108 anni. Nel 1942, oggi Martin era a
Stalingrado- il nome di una città impresso a fuoco nella memoria collettiva
come le Termopili, o Waterloo, o Caporetto, toponimi che hanno preso il
significato di una catastrofica sconfitta. E io ho controllato le temperature
di Stalingrado, oggi. Minima 1°, massima 6°. Martin parla di venti,
venticinque, trenta gradi sotto zero nel corso del novembre di 79 anni fa. Le
sorti della battaglia non sarebbero state diverse, diversa sarebbe stata,
invece, la possibilità di sopravvivenza per i nostri alpini- e il pensiero
corre a “Centomila gavette di ghiaccio” del nostro Bedeschi.
Se…se…se
Martin…, se parliamo di un personaggio che esiste su carta come se fosse
una persona che conosciamo, un amico, vuol dire che c’è una magia nella penna
di chi lo ha creato e ha saputo renderlo così “vero”. Claus von Stauffenberg
Martin Bora è un vecchio amico, lo conosciamo da
quando era un giovanissimo volontario nel Tercio
che combatteva in Spagna nel 1938 e incontrava Remedios, la donna che gli aveva
insegnato l’amore (“La canzone del cavaliere”), lo abbiamo seguito a Berlino ne
“Il signore dalle cento ossa” (aprile 1939), in Polonia sempre nel 1939 ma a guerra
appena iniziata, quando ancora questa gli sembrava un’impresa da eroi, e poi in
Bretagna, nel Nord Italia dove era stato vittima di un attentato dei
partigiani, a Roma nei giorni dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e altri ancora
teatri di guerra. Noi lettori sappiamo di più di quanto sappia lui stesso sul
suo futuro, perché Ben Pastor non ha rispettato la cronologia nello scrivere di
questo ufficiale della Wehrmacht che serve il suo paese e non Hitler. E infatti
“La sinagoga degli zingari” ci riporta indietro nel tempo, rispetto a “La Venere
di Salò” che ci aveva lasciato con il fiato in sospeso, mentre Martin veniva
caricato su un treno diretto in Germania, dopo che la Gestapo lo aveva
arrestato.
Stalingrado, dunque. Agosto 1942, nulla
lascia pensare alla disfatta. Una coppia di coniugi romeni è scomparsa nella
steppa, dopo che l’aereo che avrebbe dovuto portarli ad incontrare il generale
Paulus aveva dovuto effettuare un atterraggio di emergenza. Erano due
scienziati, avevano collaborato con Enrico Fermi ed Ettore Majorana (e il
nostro pensiero corre al libro di Sciascia), era alquanto strano che si
recassero in semplice visita di cortesia a Paulus, il quale incarica di persona
Martin di scoprire che fine abbiano fatto.Von Paulus
I romanzi seriali di Ben Pastor non sono
thriller, sono romanzi storici con delitto, sono indagine su un crimine
all’interno del crimine ben più grande della guerra, sono un grande affresco
storico dei campi di battaglia della seconda guerra mondiale in Europa, sono un
lungo romanzo di formazione, un percorso di crescita che passa attraverso
milioni di morti, sono una riflessione su questioni etiche che mettono la
nostra vita ad un bivio, sono, infine, una dimostrazione di come sia possibile
restare esseri umani anche nelle circostanze più difficili.
Due sono le immagini ricorrenti nel romanzo- la ‘grande onda di Kanagawa’ del quadro di Hokusai e la Sinagoga degli zingari, già titolo di una composizione musicata dal padre di Bora in cui la sinagoga doveva molto alla mitologia russa ed echeggiava la città perduta di Kitež, sommersa dalle onde del Volga durante l’assedio di Gengis Khan.
La grande onda che sta per abbattersi travolgendo la barchetta dell’esercito che si reputava invincibile e il miraggio della sinagoga che comunica, in qualche modo, un’idea di spiritualità e che sarà spazzata via come la mitica Kitež, insieme agli zingari, un popolo nomade quanto l’ebreo errante, che finirà nei campi di sterminio come gli ebrei. E, mentre l’afa dell’estate sulla steppa cede il passo alla prima neve e poi al gelo, mentre i cecchini non sbagliano un colpo sparando sui tedeschi dagli scheletri degli edifici rimasti in piedi (memorabile la scena del cecchino donna), mentre la battaglia contro i pidocchi è persa e quella contro il tifo pure (si ammala anche Martin), mentre il generale Paulus non ha l’ardire di dare un comando contrario a quello che il suo Führer follemente ordina, la tenaglia si stringe, i suicidi aumentano. Per dei soldati che hanno sempre avuto come punto fermo l’obbedienza assoluta agli ordini, la direttiva dall’alto, ‘non ci sono più ordini. Dalla mezzanotte di oggi vige libertà di azione’, è uno sconvolgimento, un terremoto. È la fine.
È con la conoscenza dello storico ma con
un’altra prospettiva che Ben Pastor ci parla dei giorni di Stalingrado. È la
banale quotidianità della morte in guerra quella di cui leggiamo, agghiacciante
nella sua inevitabilità che poteva essere evitata. E perdiamo di vista la seconda
trama (che cosa complottavano i coniugi scienziati? Forse sì che quello avrebbe potuto cambiare l’esito
della guerra) il cui mistero verrà poi risolto da Martin, non più in Russia ma
in ospedale a Praga senza essere mai veramente tornato da Stalingrado. E pronto
a ripartire.
Appassionante, dolorosamente coinvolgente e
sì, anche istruttivo.
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Sotto l'etichetta 'seconda guerra mondiale' si trovano le recensioni dei precedenti romanzi con protagonista Martin Bora:
2018, "La notte delle stelle cadenti"
2016, "I piccoli fuochi"
2014, "La strada per Itaca"
2014, "Kaputt mundi"
A breve metterò online le recensioni (già pubblicate in passato e ripescate nei miei file) degli altri romanzi della serie.
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