sabato 30 ottobre 2021

Håkan Nesser, “Barbarotti e l’autista malinconico” ed. 2021

                                                                       vento del Nord

   cento sfumature di giallo

Håkan Nesser, “Barbarotti e l’autista malinconico”

Ed. Guanda, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 400, Euro 19,00

    Un prologo. 2010 in Sudafrica. Un pittore ritorna in Svezia, alcuni dei suoi quadri restano lì, affidati ad una donna che lo stima.

   2012. Una sorta di diario intitolato Spruzzi e brandelli che leggeremo a intervalli. Inizia con una frase che contiene il dolore di una colpa: Non è giusto che io viva. Sono in molti a pensarlo, e li capisco. La persona che scrive- sapremo che si chiama Albin Runge- dice di farlo perché resti una spiegazione. Studioso di storia delle idee, dopo aver perso il finanziamento per la ricerca aveva trovato lavoro come autista di pullman. Il 22 marzo 2007 l’incidente che aveva causato la morte di diciassette ragazzi e un adulto. E in un altro modo era morto anche lui. Come si sopravvive con un fardello di colpa così pesante? Era stato assolto, non avrebbe potuto evitare l’incidente, ma i fantasmi erano lì.


Nel 2012, cinque anni dopo l’incidente, aveva iniziato a ricevere lettere brevissime firmate ‘Nemesi’ e contenenti oscure minacce di morte. Poi un paio di telefonate. Albin Runge, negli anni trascorsi, si era separato dalla prima moglie e si era risposato con una donna conosciuta in banca- non voleva coinvolgerla, a lei aveva letto solo le prime due lettere e non le aveva detto nulla delle telefonate ricevute in seguito. Va, però, a denunciare il caso alla polizia- se ne occuperanno Eva Backman e Gunnar Barbarotti.

    2018, fine agosto, il periodo preferito per gli incendi di automobili. Nel tentativo di fermare un ennesimo incendio che causerebbe la morte della coppietta che si trova nell’auto, Eva Backman spara mirando alle gambe dell’ombra scura che ha in mano una tanica di benzina, ma…

    Per riprendersi dal trauma, Eva Backman e Barbarotti (ormai sono una coppia, dopo che Barbarotti è rimasto vedovo) vanno a passare un mese di tranquillità lontano dal mondo, nell’isola di Gotland, amata dal regista Bergman. E vedono un uomo che, pur con barba e capelli lunghi che lo rendono diverso, assomiglia ad Albin Runge. Che è morto nel 2012. O almeno, è stato dichiarato morto anche se il suo corpo non era mai riaffiorato- secondo quanto detto dalla seconda moglie, doveva essere stato gettato in mare dal traghetto su cui viaggiavano.


     Il nuovo romanzo di Hakan Nesser è più un mystery che un thriller. E’ giocato sulla curiosità di scoprire che cosa sia accaduto al povero Albin Runge e sulla simpatia che suscita in noi la coppia Backman-Barbarotti piuttosto che su una tensione narrativa. E, tutto sommato, Albin Runge si rivela un ingenuo, o forse è la sua fragilità a renderlo tale- perché è lui ad essere fragile e non la moglie che lui dice di voler proteggere. Di lui, più che lo sviluppo della vicenda che lo riguarda, che un suo ex professore aiuta a chiarire e che ci pare una concessione ai nostri tempi, ci interessa il problema etico che lo attanaglia, quel senso di colpa che nessuna assoluzione di un giudice può attenuare. E allora comprendiamo benissimo il perché della mini-trama del 2018 sui ragazzi piromani. Oltre a segnalare un certo tipo di vandalismo criminale nella algida Svezia, amplia la riflessione sulla colpa- anche in questo caso, come per Albin Runge, si è trattato di un incidente: un morto ora, diciotto morti allora, ha importanza il numero?-, sull’espiazione, sul convivere con un ricordo che fa sanguinare il cuore.

   E poi sono il personaggio di Barbarotti, con il suo umorismo che ha una punta di allegria, i suoi colloqui con Dio (sono i suoi ascendenti italiani che lo influenzano a rivolgersi all’aldilà?), la sua moderazione e il suo equilibrio, insieme allo stile vivace di Nesser a rendere il romanzo una piacevolissima lettura.

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giovedì 28 ottobre 2021

Guzel’ Jachina, “Figli del Volga” ed. 2021

                                                 Voci da mondi diversi. Russia

   la Storia nel romanzo

Guzel’ Jachina, “Figli del Volga”

Ed. Salani, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 510, Euro 19,90

 

   Attendevamo questo secondo romanzo di Guzel’ Jachina, la scrittrice nata a Kazan di cui abbiamo già letto (amandolo molto) “Zuleika apre gli occhi”. Perché sentivamo la mancanza dei grandi spazi, dell’afflato epico e dei personaggi così densi della sua narrativa. “Figli del Volga” non ci delude.

   Inizi del Novecento sulle rive del Volga, l’Old Man River della Russia, il grandioso personaggio del romanzo, che scorre immutabile e indifferente a quanto accade sulle sue sponde, da una parte e dall’altra. Sul lato sinistro del Volga avviene la grande Storia, quella dei cambiamenti epocali, della Rivoluzione che vedrà la fine degli Zar. Il lato destro è quasi bucolico, con alberi di meli in fiore, villaggi tranquilli, una quotidianità senza scosse, di stagione in stagione. Su questo lato destro vive una comunità di tedeschi, arrivati su quelle terre dopo gli editti di Caterina la Grande di metà del ‘700 intesi ad aumentare la popolazione con la promessa di auto-amministrazione, libertà di religione, di commercio e di tassazione per un minimo di dieci anni. Ecco perché il protagonista Jakob Bach (e osserviamo il cognome che significa ‘fiume’) viene sempre chiamato con il suo appellativo in tedesco, Schulmeister. Un uomo non aitante, riservato, timido. Uno studioso. Ha sempre insegnato nella scuola del villaggio finché un ricco commerciante dell’altra riva gli chiede di diventare il maestro privato di sua figlia Klara. Vuole che questa impari qualcosa per poterla dare meglio in sposa.


    La scena in cui il tremebondo Jakob attraversa il fiume su una barca governata da un kirghiso che gli incute timore con il suo aspetto e con il suo mutismo è il simbolo perfetto per il cambiamento di rotta della vita di Jakob. Le lezioni si svolgono in una maniera che sembra una parodia degli incontri fra i due sessi. Non solo c’è una vecchia che fa sempre la guardia mentre fila, ma Klara è nascosta dietro un paravento. Jakob ne vede solo le dita quando le passa, da sotto, il libro da leggere. E il libro diventa galeotto, sui margini delle pagine vengono annotati messaggi che parlano sempre più d’amore. È il caso di dire che l’amore è cieco. Si può immaginare qualunque cosa schermati da un paravento.

    Dobbiamo leggere tra le righe per capire quali siano i sentimenti dei due quando, infine, coronano il sogno. Di certo Jakob adorerà Klara tutta la vita, e oltre. E se dapprima odia la bimba che nascerà (per tutti i dubbi che la circondano, perché è responsabile della fine di Klara), poi amerà anche lei di un amore generoso, assoluto, forse anche egoista, di quell’egoismo inteso a riparare l’altro da ogni pericolo privandolo di ogni esperienza. Intanto la Storia va avanti, all’insaputa di Jakob che, quando ritorna al villaggio dalla grande casa che era stata del padre di Klara, è come Rip van Winkle che si sveglia dopo un sonno durato vent’anni.

il treno di Stalin

    Succedono tante cose nella ventina e più di anni in cui si svolge “Figli del Volga’. Personaggi veri, come Stalin e Hitler, fanno capolino nelle pagine insieme ai personaggi inventati, figure che paiono uscite dal folklore e altre molto realiste, un ragazzino che salta fuori dal nulla- uno dei tanti orfani della grande carestia che è una sorta di scugnizzo russo pieno di risorse e che diventerà inseparabile da Klara-, i tedeschi di Russia usati come pedina di scambio, la collettivazione e la fame, le favole scritte da Jakob come merce di scambio per una tazza di latte (un piccolo romanzo dentro il romanzo), le purghe e le guerre. Mentre il Volga scorre, per mesi interi sotto una lastra di ghiaccio (quel ghiaccio che manterrà il corpo di Klara come fosse nello stesso tempo Regina delle Nevi e la Bella Addormentata nel Bosco), imprigionando cadaveri in attesa del disgelo.

    Un romanzo grandioso- nella tradizione del grande romanzo russo, è il caso di dirlo- da leggere.

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lunedì 25 ottobre 2021

Laura Imai Messina, “Tokyo tutto l’anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli”

                                                      Voci da mondi diversi. Giappone


Laura Imai Messina, “Tokyo tutto l’anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli

Ed. Einaudi, pagg. 286, Euro 19,00

      Questo non è un romanzo. Non è neppure una solita guida di viaggio. Oppure no, è entrambe le cose, ma è anche un libro di Storia di una città e in parte un libro autobiografico. Leggete il titolo tutto intero, ogni parola ha un significato.

    “Tokyo tutto l’anno”, perché la divisione in capitoli è quanto meno originale. Ogni capitolo è dedicato ad un mese e per prima cosa, prima di portarci in giro per una qualche area di Tokyo, l’autrice ci spiega il significato del nome di quel mese. Prendiamo ad esempio Ottobre, Kannazuki in giapponese, “è il mese in cui, secondo il calendario lunare, gli dei del pantheon giapponese lasciano le proprie dimore, dislocate nei vari templi e santuari sparsi nel paese, per raccogliersi tutti nella prefettura di Shimane, nel santuario di Izumo Taisha”. Ne consegue che uno dei tanti nomi attribuiti ad ottobre è “il mese della partenza degli dei”. Ha altri nomi, però, come “il mese della prima brina”. È il mese in cui le foglie diventano rosse, “fruttificano gli alberi d’autunno, e sul mercato circola il nuovo raccolto del riso.” Chi conosce il giapponese avrà il piacere aggiunto di cogliere le sottigliezze dei caratteri Kanji, con cui Laura Imai Messina diversifica le spiegazioni.


   “Viaggio sentimentale nella grande metropoli”- è l’aggettivo ‘sentimentale’ che ci interessa. Perché è con occhi da innamorata che Laura Imai Messina vede Tokyo. Perché solo chi è innamorato può conoscere tutti i dettagli, avere visto scorci insoliti, trovare le parole giuste per fare rivivere agli altri le sue esperienze. Laura Imai Messina era partita per il Giappone pensando di passarci un anno dopo la laurea. Vive ancora là, con il marito Ryosuke e i loro due bambini, Sosuke ed Emilio. A volte si vive in un paese straniero più anni di quanti se ne siano vissuti in patria e si è sempre stranieri. Non così Laura che sembra aver avuto un colpo di fulmine per il Giappone prima ancora di conoscere il marito. Ed è insieme a tutta la famiglia che ci accompagna per Tokyo, inframmezzando descrizioni, notizie storiche, piccoli aneddoti, appunti linguistici, ricette di cucina, spiegazioni delle festività (tante) con quadretti di vita famigliare, frasi buffe dette dai due bimbi. Va da sé che, in questa dolce compagnia, Laura Imai Messina non ci offre solamente una Storia per adulti della capitale del Giappone, ma ci dà anche informazioni su quello che piace ai bambini nel caso che il turista viaggi con tutta la famiglia.


     Non mi era mai capitato di leggere una guida di una città così affascinante, così ricca, così colorata, così viva, così informata e mai, assolutamente mai noiosa. Mi ha spiegato con leggerezza aspetti che non avevo colto durante il mio breve viaggio in Giappone, mi ha fatto venire voglia di tornarci, libro alla mano, seguendo i passi di Laura Imai Messina.

    Un libro che consiglio a tutti gli amanti del Giappone, a chi ci è stato e a chi vorrebbe andarci.

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domenica 24 ottobre 2021

Gunnar Gunnarsson, “L’uccello nero” ed. 2021

                                    Voci da mondi diversi. Islanda

   cento sfumature di giallo

Gunnar Gunnarsson, “L’uccello nero”

Ed. Iperborea, trad. Maria Valeria D,Avino, pagg. 274, Euro 17,00

 

    Un noir è sempre un noir. Non è vero. C’è noir e noir. E questo, “L’uccello nero” dello scrittore islandese Gunnar Gunnarsson, è più che un semplice noir, è un romanzo splendido che scava negli animi dei personaggi, ne esamina le passioni, il desiderio bruciante che porta al delitto, il senso di colpa e quello di impotenza davanti a chi ha commesso il crimine, il significato di giustizia e di espiazione.

    Il narratore è il cappellano Eiulvur che aveva solo vent’anni all’epoca dei fatti che racconta, avvenuti quindici anni prima. Ed è la morte in mare del figlio  quindicenne che lo spinge a ricordare quello che il suo animo non ha mai dimenticato, quello per cui si continua a rimproverare.

    I fatti in poche parole. Sono gli anni sul finire del secolo XIX, in una fattoria isolata abitano due coppie con i loro figli (una decina tra gli uni e gli altri)- Bjarni, aitante e biondo, e la moglie Guđrun, sempre tossicchiante e noiosa; l’insignificante Jón e la bellissima Steinunn. Succede il prevedibile. Bjarni e Steinunn si innamorano. Prima scompare Jón (è caduto in mare? il corpo riappare a un anno di distanza), poi muore Guđrun.


    Ci sarà un processo con un giudice convinto da subito della colpevolezza di Bjarni e Steinunn, così come è convinto che Bjarni menta. Di ben altro parere è il giovane cappellano. O meglio, pur sapendo che i due innamorati, che dichiarano apertamente che hanno ucciso perché volevano sposarsi e vivere il loro amore senza nascondersi, Eiulvur simpatizza con loro, vorrebbe adempiere al suo compito che è quello di aiutare i suoi parrocchiani, di portare alla salvezza le loro anime. E si sente colpevole anche lui, nella sua impotenza.  E non ha forse anche una qualche responsabilità il suo anziano superiore che ha lasciato seppellire Guđrun senza indagare di più sulle cause della sua morte?

    Gli abitanti del villaggio vengono chiamati a testimoniare uno dopo l’altro, ascoltiamo le loro deposizioni su quello che i due incriminati avrebbero detto, sulle lamentele di Guđrun, sulle parole che rivelavano l’infelicità di Jón, sui sospetti che Guđrun aveva avuto riguardo ad una zuppa che l’aveva fatta stare male, sulla dichiarazione di Jón  che voleva andarsene dalla fattoria. Verità e pettegolezzi, malignità e incredulità, invidia e indignazione. Finché Bjarni e Steinunn ripercorrono gli eventi.


    Ho detto che questo è un noir speciale, forse perché non è stato scritto con l’intenzione di farne un noir. C’è la tensione di scoprire la verità, la curiosità di apprendere i dettagli, ma poi c’è, fortissimo, il dilemma morale che porta alla riflessione, “Ognuno di noi prima o poi, che lo voglia o no, si trasforma in torturatore e assassino. Tutti inchiodiamo alla croce il figlio di Dio! In noi stessi o nel nostro prossimo”, così che, emessa la sentenza, il cappellano dirà al giudice: “Ora anche noi due abbiamo ucciso”. E interpreterà la morte del figlio, quindici anni dopo, come un segno divino per lui che non si perdona la sua debolezza.

     Anche la natura ha la sua parte, nel romanzo di Gunnar Gunnarson. Tutto viene esasperato nella rigidità del clima ed è quasi come se abbandonarsi alla dolcezza dei sentimenti possa essere di conforto anche per quello, come se si avesse il diritto di cercare altrove il conforto che un ambiente aspro non può dare.

     Un romanzo drammatico di una potenza straordinaria.

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giovedì 21 ottobre 2021

Alessia Gazzola, “La ragazza del collegio” ed. 2021

                                                             Casa Nostra. Qui Italia

      Cento sfumature di giallo

Alessia Gazzola, “La ragazza del collegio”

Ed. Longanesi, pagg. 304, Euro 18,60

 

     Pensavamo che Alice, in America con il finalmente conquistato Claudio Conforti, avesse girato pagina, che non potesse più fare, laggiù, la detective dilettante oltre che il medico legale, e che, quindi, ci avesse salutato definitivamente. E invece no. Sorpresa! A dieci anni dal primo romanzo della serie, “L’allieva”, Alice è tornata, con la sua vivacità, la sua autoironia, il suo amore per Claudio, il suo attaccamento alla nonna e alla famiglia. Forse più matura, anche per la dolorosa esperienza di un aborto e la delusione costante nel non vedersi avverare il desiderio di avere un bambino. E, insieme ad Alice, sono tornati tutti gli altri personaggi comprimari di cui sentivamo la mancanza.

    La temuta Wally va in pensione, si apre la possibilità, per Claudio, di concorrere al posto che lei occupava e a cui lui ambiva. E, tutto sommato, sì, è bello vivere a Washington, ma, vuoi mettere Roma?


    Con la sua straordinaria capacità di mescolare il colore del giallo con quello del rosa, Alessia Gazzola intreccia con abilità quattro filoni, di cui due risulteranno poi collegati. Mentre Claudio si applica per raggiungere la meta di tutti i suoi studi, mentre Alice trova finalmente un ginecologo che le fa iniziare una terapia (riuscirà lui a diventare direttore dell’istituto e diventare il nuovo ‘Supremo’? e riuscirà lei a restare incinta?), una giovane studentessa di medicina muore dopo essere stata investita da un’automobile e un bambino di colore viene ritrovato da solo- non sa parlare, è stato abbandonato non si sa da chi, chissà da dove viene e quale lingua capisca.

    Alice- la conosciamo- è Alice. Non è capace di mantenere le distanze dal caso che viene chiamata ad analizzare. Si immedesima in Francesca, la ragazza morta, e intanto si fa strada il sospetto sempre più concreto che, chiunque fosse al volante, l’abbia investita apposta. Francesca era daltonica- è possibile che non abbia visto il colore dell’auto e non abbia capito il pericolo? Alice va alla fiaccolata in memoria di Francesca, va nel locale dove suona il gruppo che piaceva a Francesca, conosce sua sorella e il ragazzo che era innamorato di lei.


    Quanto al bambino, non è solo Alice ad interessarsi a lui, ad andarlo a trovare nel centro di accoglienza. Non lo immagineremmo mai, e anche Alice se ne stupisce, pure Claudio va a trovarlo- il desiderio di diventare genitori è forte in entrambi, chissà, forse pensano che, se nessuno si fa vivo, potrebbero adottarlo. Ma…qualcuno si fa vivo. E, a poco a poco, la matassa si sbroglia, in qualche maniera, i due filoni ‘mystery’ sono collegati, i finali di tutte le storie contengono messaggi di speranza e di positività.

    L’inventiva è la principale caratteristica di Alessia Gazzola. Ammiriamo la capacità di trovare lo spunto per delle trame sempre nuove e originali. Ci piace la voce fresca di Alice che ci conquista con il suo brio e la sua spontaneità- la sentiamo amica. E anche se la trama più propriamente ‘gialla’ è un poco esile, tanti dettagli in apparenza marginali ci hanno incuriosito e interessato.

    È un libro per lettrici e non lo consiglierei ad un lettore, ma questo nulla toglie al fatto che sia un romanzo ben scritto, intelligente e divertente. Una lettura estremamente piacevole.

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mercoledì 20 ottobre 2021

Abdulrazak Gurnah, “Il disertore” ed. 2006- Premio Nobel 2021

                                                   Voci da mondi diversi. Africa

        diaspora africana

Abdulrazak Gurnah, “Il disertore”

Ed. Garzanti, trad. Laura Noulian, pagg. 302

    “Desertion”, il titolo originale del romanzo di Abdulrazak Gurnah pubblicato in italiano nel 2006 dalla Garzanti (introvabile al momento, tranne che sugli scaffali della mia libreria dove a volte i libri rimangono in attesa, conservati per anni perché giudicati degni di attenzione). Il titolo italiano, “Il disertore”, trae in inganno perché induce a pensare ad un uomo che abbia disertato da un esercito e leggiamo cercando di indovinare l’identità di questo personaggio. Invece “Desertion” è l’astratto ‘Abbandono’ e questo è un romanzo di abbandoni- di una o più donne, di una terra, di una cultura, di una lingua. Ed è una storia che coinvolge più personaggi, che ha conseguenze a distanza di tempo, che ‘parla di come ogni storia ne contenga molte altre e di come esse non ci appartengano, bensì dipendano dalle correnti accidentali del nostro tempo, parla di come queste storie ci intrappolino nel loro groviglio, catturandoci per sempre.’

     Tutto incomincia nel 1899, quando, in una cittadina dell’Africa orientale non lontana da Mombasa, il mercante Hassanali soccorre un inglese che stramazza ai suoi piedi, più morto che vivo. Martin Pearce era partito per una spedizione di caccia con altri europei, ma li aveva abbandonati, disgustato dalla carneficina. I due somali che avrebbero dovuto guidarlo nel deserto lo avevano derubato e abbandonato. Frederick Turner, uno degli unici due europei della piccola città, fa portare Pearce a casa sua e questi, quando ritorna per ringraziare Hassanali e la sua famiglia, vede Rehana, la donna che gli ha prestato le prime cure, e se ne innamora.


    Il romanzo è diviso in tre parti ognuna delle quali è divisa a sua volta in capitoli intitolati con il nome del personaggio che è al centro della scena. Le tre parti si svolgono in luoghi diversi e in tempi diversi, un’interruzione dopo la prima parte ci svela l’identità dell’io narrante che, a differenza di quanto accadeva nei romanzi della tradizione, non sa tutto e può solo immaginare certe scene. Sappiamo ben poco della storia d’amore tra la donna africana (che era stata sposata e abbandonata dal primo marito) e l’uomo inglese, ne sapremo di più in seguito, quando scopriremo i rapporti di parentela degli altri personaggi di cui leggiamo- e siamo già negli anni ’50 del ‘900.

    Quando, nella seconda parte, appaiono sulla scena i fratelli Amin e Rashid e la loro sorella Farida, non hanno nessun legame con Hassanali o Rehana. I genitori sono entrambi insegnanti che, per sposarsi, hanno lottato contro le convenzioni, spronano i figli allo studio, sono di larghe vedute. E tuttavia, quando divampa l’amore tra Amin e la bellissima Jamila, impongono al figlio di troncare la relazione. Sono troppe le cose contro Jamila. É divorziata, vive da sola. E poi sua nonna era stata l’amante di un inglese che poi l’aveva lasciata (un altro abbandono e ora capiamo quale sarà la connessione tra quello che abbiamo letto prima e la storia che leggiamo adesso e come la rovente passione tra Rehana e Martin si sia riverberata sui loro discendenti). Amin ubbidisce, ma questo nuovo abbandono sarà straziante per Amin che non si sposerà mai. Per Rashid, invece, l’abbandono sarà diverso, sarà il realizzarsi di un’ambizione che lo porterà a vincere una borsa di studio per frequentare l’università in Inghilterra, sarà l’abbandono della patria, delle radici, della lingua.


     Ci deve essere il riflesso dell’esperienza personale di Abdulrazak Gurnah in quella di Rashid, ragazzo nero in un’Inghilterra bianca, piena di pregiudizi e di atteggiamenti discriminatori, incapace di dimenticare il passato Impero. E la famiglia rimasta a Zanzibar, pur vedendo il distacco del figlio con dolore, non può fare altro che raccomandargli di non tornare, perché in patria troverebbe tumulti, fame e paura in un regime dittatoriale.

    Il romanzo è ricco di temi interessanti- la distanza  incolmabile tra colonizzatori e indigeni, l’ambiguità dell’ammirazione per la cultura e il mondo occidentale (compresa l’adozione della lingua dei colonizzatori), la posizione della donna nella società musulmana, l’estraneità che viene fatta pesare agli immigrati di colore, l’amore, infine, che non riesce a superare tutte le barriere. Tuttavia restiamo un poco insoddisfatti dalla lettura, come se fossimo sempre in attesa di una qualche rivelazione o approfondimento che invece non arriva. Ci affascina, però, il leit-motiv del libro, il tema della ‘diserzione’, dell’abbandono che è poi una forma di tradimento, una ferita che non si rimargina. E non si potrebbe ampliare il significato del titolo, pensando che, in qualche maniera, è stato un abbandono anche quello da parte dei  colonizzatori, dopo aver spogliato i paesi sotto il loro dominio?


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lunedì 18 ottobre 2021

Therese Anne Fowler, “Un bel quartiere” ed. 2021

                        Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America



Therese Anne Fowler, “Un bel quartiere”

Ed. Neri Pozza, trad. Ada Arduini, pagg. 363, Euro 18,00

 

   Carolina del Nord. Lui, Xavier Alston-Holt, ha la pelle nera e i capelli ricci biondo scuri. Lei, Juniper Whitman, è bianca, lunghi capelli castani. Ci possiamo aspettare altro che tragedia da una storia che li coinvolge?

    Oak Knoll è un quartiere signorile in una cittadina della Carolina del Nord- le case costano meno che in un’altra zona molto ambita e però vi si respira un’aria di vecchia signorilità, ha il fascino dell’antico. E forse il nome è dovuto proprio alla gigantesca quercia nella proprietà di Valerie Alston-Holt, un albero che avrà un ruolo importante nel precipitare degli eventi.

Brad Whitman, dei Climatizzatori Whitman, ha fatto abbattere la casa sul terreno che ha comprato per costruire un’abitazione nuova, dotata di tutte le modernità più costose, e c’è pure annessa una piscina. È un self-made man, orgoglioso di quello che ha raggiunto- il suo volto appare in televisione (gli Alston-Holt non hanno il televisore, per loro lui è uno sconosciuto), guida una Maserati, ha agganci importanti e se ne vanta. Ha anche una famiglia perfetta, una bella moglie e due figlie, la diciassettenne Juniper e la piccola Lily. In realtà Juniper è solo figlia della moglie di Brad che ha avuto una giovinezza scapestrata ed è stata felice di aver conquistato il cuore di un uomo ricco e generoso. Chissà perché avvertiamo che non è tutto oro quel che luccica? E, tanto per incominciare, Brad ci è antipatico fin dal suo esordio, quando, vedendo Xavier nel giardino vicino, dà per scontato che sia un garzone o un subalterno di qualche tipo e gli chiede sfacciatamente se può fare dei lavoretti per lui.


    Tutto quello che segue è piuttosto prevedibile. I pregiudizi dei Whitman si scontrano con la luminosa superiorità di Valerie, professoressa di silvicoltura, attenta all’ecologia, animatrice di un Bookclub che si riunisce mensilmente in casa sua. Suo figlio Xavier non è da meno, ha proprio tutto: alto, bello, intelligente, vincitore di una borsa di studio per studiare musica all’università di San Francisco (è un appassionato di chitarra classica, niente a che fare con jazz o blues, il tipo di musica che si associa generalmente ai neri). Il marito di Valerie (ennesimo pregiudizio, Brad Whitman mette in dubbio che lei sia mai stata sposata) era un bianco, la sua morte prematura ne aveva fatto una vittima della discriminazione.

    Un’altra cosa va detta per capire il crescere della tensione e l’inevitabilità di quello che succederà. Juniper, sollecitata dai genitori che temono possa succedere a lei quello che è successo a sua madre, aderisce al Purity Program della Chiesa: le ragazze promettono al padre di non avere rapporti prima del matrimonio. È come una terribile cintura di castità che ai nostri giorni mette i brividi. Confesso di aver avuto un moto di repulsione nel percepire l’ambiguità incestuosa nelle fotografie di padri e figlie scattate durante la cerimonia della Promessa.

    L’epilogo sarebbe stato lo stesso, ma c’è qualcosa che si aggiunge alla difficoltà della storia d’amore. La quercia. L’albero gigantesco le cui foglie Valerie monitora regolarmente sta morendo. I Whitman hanno costruito senza rispettare le distanze fissate dalla legge, è l’abuso di cemento della loro casa che ha danneggiato le radici dell’albero. Chi, se non Valerie, può saperlo? Fa causa a Brad Whitman e all’impresa edilizia. E Brad gioca sporco, possiamo aspettarcelo.


    Una voce narrante esterna ci racconta di questa tragedia che ha qualcosa di scespiriano e qualcosa del “Matrimonio americano” di Tayari Jones nelle pagine dell’incarceramento di Xavier. La singolarità di questa voce è che sembra quella di un coro- riporta i pensieri, le chiacchiere, le ipotesi, i giudizi, le impressioni di un ‘noi’ che è l’intero vicinato che prende parte a quanto accade. Quanto è obiettiva questa voce? Più che se fosse quella di una sola persona, perché più varia. E…proprio un bel quartiere.

    Un romanzo che si legge d’un fiato. Anche se ha qualcosa di scontato, ci riempie di tristezza e di indignazione, ci colpisce per il contrasto tra la ventata di novità che vi si respira tra i personaggi di colore e il persistere di un bieco malanimo, di una convinzione di errata superiorità, di disprezzo da parte dei bianchi- come se i tempi fossero ancora quelli di prima delle leggi Jim Crow.

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venerdì 15 ottobre 2021

Tsumura Kikuko, “Un lavoro perfetto” ed. 2021

                                                       Voci da mondi diversi. Giappone

      romanzo di formazione

Tsumura Kikuko, “Un lavoro perfetto”

Ed. Marsilio, trad. Francesco Vitucci, pagg. 315, Euro 314

 

     Lavora con passione, la protagonista del romanzo di Tsumura Kikuko, per essere una persona che ha esplicitamente detto di essere in cerca di un lavoro poco impegnativo, senza possibilità di carriera e fuori dal gioco di competizione, qualcosa di semplice e anche vicino a casa. Lei è tornata a vivere con i genitori, dopo essersi licenziata per un esaurimento nervoso. E la consulente del lavoro a cui si rivolge, la signora Masakado, ha una pazienza infinita e la capacità di immedesimarsi nelle persone che si rivolgono a lei- uno dopo l’altro le troverà cinque lavori ‘perfetti’ per le sue esigenze, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che puntualmente lei si ripresenti dopo essersi licenziata, comprensiva sulle sue motivazioni.

   Il primo lavoro ha qualcosa di inquietante nella sua immobilità: la protagonista/io narrante deve sorvegliare uno scrittore messo sotto controllo con videocamere perché sospettato di attività di contrabbando. Significa entrare di nascosto nella vita di un altro e- questo è l’aspetto buffo- lasciarsene influenzare, tanto da imitarlo in quello che fa o sperimentare i cibi da lui preferiti.


Un lavoro a tempo determinato è perfetto per la nostra protagonista senza nome, le permette di non stancarsi di quello che fa, di girare pagina e sperimentare qualcosa di nuovo. Nel secondo lavoro il suo compito è quello di scrivere annunci pubblicitari che verranno registrati e trasmessi su una linea di autobus: è un impiego che richiede una certa inventiva, capacità che lei si scopre di avere. Ed acquista anche maggior rilievo quella tenue traccia di mystery che era già apparsa nel racconto di ‘spionaggio’.


“I cracker di riso”
è, sotto tutti i punti di vista, il più godibile dei capitoli, quello che vede dispiegarsi la fantasia della protagonista che deve inventare nuovi contenuti per le confezioni di cracker di una nota marca. Lei non sembra affatto stressata, anche se- come osserviamo- si lascia coinvolgere sempre di più, perché- lo capiamo benissimo- è lei che è fatta così, che reagisce così davanti ad uno stimolo più o meno intellettuale. Ed incomincia a capirlo anche lei, ad apprezzare quello che c’è di positivo in qualunque esperienza. Questo terzo lavoro, poi, porta lei (e noi) ad assaggiare nuovi gusti e nuove ricette.

     Il lavoro seguente è l’opposto della sedentarietà del primo- andrà in giro ad attaccare manifesti- e l’ultimo, infine, rappresenta un bel cambiamento anche se si prospetta in modo un po’ oscuro- sa solo che è un lavoro semplice da svolgersi in un capanno nel bosco. Sarà semplice, sì, ma anche in questo lei ci mette del suo, ci sarà uno sviluppo imprevisto e un’altra traccia ‘mystery’, e comunque lei ne uscirà gratificata. Sarà come se ritrovasse la luce, dopo l’oscurità metaforica del bosco.


    Da uno spunto iniziale che poteva sembrare irrilevante, con una costruzione narrativa che presentava la difficoltà di un racconto frammentato e slegato, rielaborando probabilmente esperienze personali (Tsumura Kikuko è stata vittima di molestie sessuali nel suo primo posto di lavoro e si è licenziata dall’impiego che aveva occupato per dieci anni accusando una sindrome da “burn out”), la giovane scrittrice (è nata nel 1978 e ha vinto il primo premio letterario nel 2005) ci ha regalato un romanzo di formazione decisamente originale con una protagonista che ci ispira tenerezza e ci diverte anche, per la sua ingenuità, per la sua freschezza, perché si sottovaluta, perché è curiosa e aperta a nuove esperienze e a nuove conoscenze. In questo singolare ‘viaggio’ attraverso diversi lavori, impara a conoscere meglio se stessa e a lasciar entrare gli altri nella sua vita (noi impariamo anche molto della cucina giapponese, se ci convinca o no…sarebbe da provare).

E non trascuriamo il bel personaggio della signora Masakado: ce ne fossero di consulenti del lavoro come lei!

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giovedì 14 ottobre 2021

Andrej Longo, “Chi ha ucciso Sarah?” ed. 2021

                                                                       Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo

Andrej Longo, “Chi ha ucciso Sarah?”

Ed. Sellerio, pagg. 219, Euro 14,00

 

    Agosto. Napoli. Il bel quartiere di Posillipo. Una ragazza è stata trovata morta nell’androne del palazzo dove abitava con i genitori, in quel momento assenti. A ritrovarla, dopo una chiamata ricevuta al 113, è stato un giovane agente di polizia. Lo conosceremo sempre con il cognome, Acanfora. Quando vede la ragazza per terra, pensa che deve avere più o meno la sua età. Lui ha vent’anni.

    L’indagine è condotta dal commissario Santagata. L’agente Acanfora (la voce narrante) dice di non riuscire a capirlo- Santagata è di poche parole, ogni tanto tira fuori una bottiglia di whisky e beve (la bottiglia contiene tè- è vero, l’ha fatto assaggiare allo scettico Acanfora), in passato è stato alcolizzato (racconterà lui quello che gli è successo, a mo’ di spiegazione, ma come se fosse accaduto ad un’altra persona), l’ammirazione di Acanfora per lui è palpabile.


    Vengono interrogati gli abitanti del palazzo antico dove abitava Sarah con la famiglia. Sembra che tutti la conoscessero, che tutti le volessero bene. Si sapeva che aveva un ragazzo, che dovevano aver litigato perché quella sera Sarah non era uscita con lui, che prima era stata innamorata di un altro ragazzo che però la sua famiglia non vedeva di buon occhio perché era del quartiere la Sanità. Alla Sanità era nato Totò, alla Sanità Rossellini aveva girato dei film, ma era un quartiere malfamato e pericoloso- non certo l’ambiente per una ragazza come Sarah.

    Lo splendore di Posillipo e le case fatiscenti della Sanità, ricchezza e miseria, verità e quella forma di falsità che è il silenzio- è giocato su questi contrasti il bel giallo di Andrej Longo. Quanti sono reticenti, tra gli abitanti del palazzo di Sarah? Quanti sono pronti a puntare il dito sull’ex ragazzo di Sarah? Quanti dicono di non aver sentito niente? Sarah aveva gridato, probabilmente per chiamare aiuto. Se è comprensibile che la collaboratrice domestica straniera abbia fatto finta di non vedere il corpo di Sarah e si giustifichi dicendo che pensava fosse una tossica, non è accettabile che l’avvocato che ha combattuto in guerra, che si è preso delle medaglie al valore, si sia lasciato convincere dalla moglie a non immischiarsi. E il professore che abita al primo piano?

    È facile arrestare il ragazzo della Sanità, un capro espiatorio ci vuole, e poi lui era scappato- i più pensano che chi scappa ha qualche colpa, non pensano che si dia alla fuga perché un pregiudicato è sicuro che una qualche colpa gli verrà addossata in ogni modo.


   Mentre Napoli è stretta dalla morsa di un caldo africano, il caso di Sarah segna il passaggio di maturazione dell’agente Acanfora, evidenziato a livello famigliare dal distacco dalla mamma che va in vacanza dalla sorella a Ischia e, nel suo intimo, da una comprensione e da un’empatia più grandi, da un’accettazione di una realtà che non lascia illusioni sulla bontà umana. Perché il finale è sconvolgente, è il trionfo della banalità del male, è come il tuono che squarcia l’aria annunciando il temporale e la pioggia che rinfrescherà l’aria. Non è una pioggia catartica- Mi pareva che tutto all’improvviso la città si era svegliata dal sonno, ma ho pensato che invece di fare giorno, continuava sempre ad essere notte.

 Un giallo psicologico con una forte tensione etica, terso e lineare, con un linguaggio che ha un tocco di colore partenopeo.

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