domenica 29 marzo 2020

Martin Long, “La donna della palude” ed. 2020


                                          Voci da mondi diversi. Francia
                                                          cento sfumature di giallo

Martin Long, “La donna della palude”
Ed. Tre60, trad. Francesca M. Gimelli, pagg. 304, solo ed. kindle Euro 4,99

      Nanchino. Tempo attuale. Tian Haifeng, ispettore capo di pubblica sicurezza, si sta occupando di un grosso caso di frode. E questo sarebbe già di per sé uno di quei casi difficili se, come sembra, l’indagato è protetto dall’alto. L’attenzione di Haifeng (vedovo, con una sorella e un figlio adolescente) è distratta dalla scoperta del cadavere di una donna che è affiorato nel campo di un contadino. Appare subito chiara l’eccezionalità del ritrovamento- si tratta di una mummia conservata benissimo nella torba, proprio come ‘l’uomo di Tollund’ (è il figlio di Haifeng che lo fa osservare). Deve risalire ad almeno tremila anni fa e- dettaglio importantissimo- la donna ha lineamenti caucasici. Vuol dire che c’è stata una colonizzazione antichissima? Brutto colpo per la Cina. Ma Haifeng riesce appena a vedere la mummia, perché interviene il direttore del museo a sottrargliela- quale opportunità fantastica per lui, con un reperto così eccezionale! Eppure…un incendio nel museo distrugge la mummia, il direttore si trasferisce a Shanghai, lo stesso Haifeng deve aver pestato i piedi a qualcuno e viene allontanato con altri compiti- fare esperienza dell’antiterrorismo nello Xinjiang nel Nord Ovest della Cina dove vive la minoranza etnica degli Uiguiri.

       È stato Haifeng a scegliere la destinazione- sta inseguendo le tracce di un braccialetto di giada scomparso dal polso della mummia. E nello Xinjiang trova- sì, altre mummie. Se la donna mummificata di Nanchino era stata preservata intatta dalla torba, le mummie del deserto di Turpan (uno dei luoghi più caldi del mondo) sono state letteralmente cotte dal calore della sabbia infuocata. E i lineamenti dei loro volti sono chiaramente han. Un anziano archeologo che ha avuto la vita spezzata dalla Rivoluzione Culturale rivelerà alla Cina e al mondo la grande scoperta: lo Xinjiang (regione autonoma dal 1955) non può essere reclamato dagli Uiguiri se le mummie han testimoniano la presenza dell’etnia di maggioranza nella Cina da tremila o quattromila anni fa.
       L’ambientazione de “La donna della palude” (primo di una serie di romanzi con l’ispettore Haifeng come protagonista) è una scelta felice da parte dello scrittore Martin Long che parla correntemente mandarino e si reca spesso in Cina in cerca di soggetti per i suoi libri. Martin Long ci porta con Haifeng nello Xinjiang, regione che ha acquistato una enorme importanza per la sua posizione strategica di passaggio sulla nuova via della seta e che, però, è fonte continua di problemi per le aspirazioni separatiste degli Uiguiri, la minoranza musulmana della regione.
Nel 2017 sono affiorate testimonianze sui campi di rieducazione per le minoranze dello Xinjiang e nel 2019, quando il premio Sacharov per la libertà di pensiero è stato attribuito al docente uiguro di economia internazionale Ilham Tohti, in carcere con l’accusa di istigamento al separatismo, l’attenzione si è di nuovo puntata sullo Xinjiang. Nel romanzo di Martin Long non si fa cenno a questo, ma ci sono vari episodi di maltrattamenti degli Uiguiri da parte dei rappresentanti dell’autorità cinesi. E il fatto che l’aspetto di Haifeng sia insolito, che, con i suoi tratti somatici e la carnagione scura, possa essere scambiato per un Uiguiro, aggiunge un tocco personale al suo e nostro coinvolgimento. Con una penna leggera, dunque, Martin Long ci fa capire che c’è molto altro dietro la storia delle mummie ritrovate.
    Se leggere vuol dire vivere altre vite, viaggiare con la mente in paesi che non visiteremo mai, le descrizioni del deserto di Taklamakan con le montagne fiammeggianti meritano di per sé la lettura de “La donna della palude”. Attendo i libri seguenti, introvabili tranne che per qualche copia in francese.

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giovedì 26 marzo 2020

Giorgio Fontana, "Prima di noi" - Intervista 2020


                                                

    Avevo amato molto i due precedenti romanzi di Giorgio Fontana, “Morte di un uomo felice” e “Per legge superiore”. Mi erano piaciuti i suoi personaggi, quello che avevano da dirci, e la ‘sua’ Milano. Lo avevo presentato a Mantova nell’edizione del Festival della Letteratura del 2012 ed è stato un vero piacere rileggerlo in un libro di così ampio respiro come “Prima di noi”- un passo avanti nella sua carriera di scrittore. Ascoltiamo quello che Giorgio Fontana ci racconta del suo romanzo (al telefono, siamo tutti bloccati in casa per il coronavirus).

Questo romanzo è così diverso dai tuoi precedenti che è d’obbligo iniziare da ‘i Sartori’. Chi sono i Sartori? Perché i Sartori?
     Lo spunto iniziale del romanzo è nato dieci anni fa e da un fatto della mia famiglia. La storia di Maurizio Sartori, della sua diserzione, del rifugiarsi nel casolare dove incontrò Nadia, è quella del mio bisnonno. Poi la sua vita fu tutt’altra: questo non è un romanzo sulla mia famiglia. Mi sembrava un modo interessante per iniziare un racconto a lunga campata su una famiglia italiana del 1900- con una duplice diserzione che pesa sulla stirpe. Sono andato in ordine cronologico con le invenzioni letterarie. Ho pensato ai figli e poi ai figli dei figli. Non volevo raccontare la Storia ma gli individui e poi era inevitabile che la Storia uscisse in filigrana.

Come hai proceduto nella scrittura di un romanzo di così ampio respiro? Avevi in mente una ‘scaletta’ con i personaggi e avevi deciso fin dall’inizio ‘dove’ collocarli, sia nella storia di famiglia, sia nella Storia d’Italia?
      Sono andato procedendo blocco dopo blocco. Avevo chiaro in mente l’inizio e una mezza idea della conclusione in un arco di quattro generazioni. Ho inventato la parte che si svolge a Udine e, mentre ragionavo sui Sartori, mi venivano in mente i dettagli sulla loro indole, sull’aspetto fisico. A livello pratico affrontavo una ‘fetta’ di anni, aggiustandola un poco e prolungando lo spazio temporale mentre tenevo ben salda a fianco una scaletta che veniva rinegoziata durante la stesura: c’erano tante sottotrame da far tornare- ha richiesto molto tempo. Dopo una prima stesura ho iniziato il processo di riscrittura e di rimpasto linguistico per dare uniformità al testo. Avevo impiegato anni a scriverlo e nel frattempo ero cambiato anche io come scrittore. Nei primi cinque anni ho fatto soprattutto ricerche- parlo di dieci anni fa, all’epoca avevo appena finito di scrivere “Per legge superiore”. È stato un lavoro mastodontico. Negli ultimi cinque anni mi sono dedicato alla scrittura.


Parlando della Storia d’Italia- cito dal tuo romanzo-, per non “rimanere pietrificati sotto il peso di quanto accaduto prima di loro”, come hai scelto i grandi eventi di cui parlare?
      Ho seguito un criterio che all’inizio non era conscio ma poi lo è diventato. Intendevo guardare i grandi snodi della Storia con una prospettiva di scorcio, con uno sguardo minore. Ad esempio, gli anni ‘30 in Friuli non sono mai stati molto raccontati. Così, per la seconda guerra mondiale nella famiglia Sartori abbiamo un imboscato, uno che è prigioniero in un campo di concentramento in Africa (e anche questa è una Storia che non è stata raccontata, almeno, non di recente) e uno lambisce la guerra partigiana. Sono tre storie minori che attraversano questi fatti senza grandi eroismi. Ho voluto poi tagliare gli anni ‘70 concentrandomi sulla prima parte, gli anni dal ‘70 al ’74, e solo Eloisa è politicizzata, e oltre tutto è un’anarchica. Davide non si interessa di politica, Libero si preoccupa di sfuggire ai bulli e Diana pensa a diventare una cantante. Volevo mostrare che non si deve dare per scontato che un’intera generazione era dedita alla politica. C’erano altre cose che ho voluto raccontare.

Immagino anche che tu abbia fatto un grosso lavoro di ricerca, anche se oggigiorno le ricerche sono più facili e forse non è necessario andare alla Sormani…
      Altroché…però sono andato anche alla Sormani, ho frequentato studi e biblioteche, ho fatto una ricerca fotografica, sono stato alla fototeca di Udine per vedere le foto del bombardamento del 1944. La cosa cruciale era restituire non solo il dato storico, ma anche quello sociale: che cosa mangiavano, come si vestivano, che percezione avevano della libertà, della sessualità, di tutto. Per me era fondamentale per una storia ambientata nel passato. Mi ha aiutato anche la memorialistica, oltre che i manuali, per inquadrare la quotidianità.

Un lettore si appropria sempre del romanzo che legge e io ho avvertito una particolare partecipazione in due momenti storici, quello delle due guerre e poi le lotte operaie.
       Gli anni che ho scritto con più trasporto sono stati quelli dal ‘57 al ‘62, quando Gabriele si trasferisce in Lombardia, i suoi sogni di intellettuale, e poi il risveglio delle lotte sindacali e operaie nei primi anni ‘60. Era una storia poco raccontata dell’Italia del boom da un punto di vista di sghembo- non un entusiasmo per il progresso senza fine ma la rivendicazione dei diritti. Era un periodo che conoscevo male, facendo ricerche mi sono appassionato.

Quale dei personaggi hai amato di più?
      Li amo tutti incondizionatamente. Alcuni mi sono più cari, ma variano da giorno a giorno. Amo molto le figure femminili di Nadia e di Diana. Mi piace Maurizio anche se è un disperato e un vigliacco. Mi sento legato a lui per la sua lacerazione interiore. Però voglio bene a tutti.

Hai accennato alle donne e allora ti chiedo subito di loro. Quelli delle donne sono i personaggi più belli, a mio parere. Sono tutte donne forti, Nadia, Eloisa, Diana. La più debole è forse Letizia: si attenua in lei la sua ‘friulanità’, quella dote di forza interiore delle donne friulane?
      È un’osservazione giusta. C’è una compartecipazione di elementi diversi per fare di Letizia quello che è: non ha la caratteristica durezza, la determinazione, la compattezza che sono virtù della regione ‘orientale’ d’Italia. Sono virtù che si attenuano insieme al fatto che appartiene a una generazione che non ha mai affrontato un grosso trauma. Il dolore si conserva e diventa interiore. Letizia è più fragile ma è quella che tiene le redini in mano: è lei che alla fine si gira indietro.


Prima ti ho chiesto se ci fosse un personaggio che hai amato di più, ora ti chiedo se ce n’è stato uno in cui è stato difficile calarti.
       Non è stato semplice mettermi nei panni di Libero e di Dario, che non è molto simpatico. Di certo il più difficile è stato Domenico.

Ecco, parliamo di Domenico. È un personaggio simile all’idiota’ di Dostojevskij?
     Sì, certo, c’è stata l’influenza di Dostojevskij. Ho voluto incarnare una figura naturalmente buona e totalmente empatica nei confronti degli altri. L’idiota gentile. Un aspetto di lui che diventa più marcato quando è prigioniero e conversa con il ‘profeta’. Domenico risente delle mie passioni letterarie giovanili per cercare di capire il male del mondo.

Il Friuli. La terra delle radici, la terra di cui si perpetua il saluto ‘mandi’, mi pare un poco sbiadita sul fondo. Volevi forse evitare di scrivere un romanzo regionale?
     È vero, non volevo un romanzo regionale. Nella seconda e terza parte, però, ambientate in Friuli, ci sono scorci di paesaggi, dei colli e dei fiumi. Dopo, il Friuli è come una chimera lontana. Non volevo calcare la mano sul dettaglio regionalistico per non cadere nel cliché. I luoghi sono importanti, ma non volevo dare una preponderanza di questi sui personaggi. Gabriele- poi- ha sempre una nostalgia infinita per il Friuli.

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recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it
le recensioni dei precedenti libri di Giorgio Fontana sono sotto l'etichetta Casa Nostra. Qui Italia, 2014





mercoledì 25 marzo 2020

Giorgio Fontana, “Prima di noi” ed. 2020



                                                                     Casa Nostra. Qui Italia
             storia di famiglia

Giorgio Fontana, “Prima di noi”
Ed. Sellerio, pagg. 882, Euro 22,00

     24 ottobre 1917. Dopo i pesanti bombardamenti e la caduta di Caporetto, l’esercito italiano si ritira dalla riva sinistra dell’Isonzo. Una ritirata disordinata e disperata, senza coordinamento, senza ordini superiori. Il giovane fante Maurizio Sartori diserta- non è certo l’unico. Trova rifugio in un casolare della pianura friulana- se può restare è perché la figlia del fattore, Nadia, riesce in qualche modo a persuadere suo padre ad ospitarlo. Maurizio dà una mano nei lavori dei campi, mangia poco per non essere di peso. MA seduce la sedicenne Nadia, la mette incinta e fugge tornando al suo paese. Finché il padre di lei lo viene a riprendere, obbligandolo a fare il suo dovere.
      Non ha un inizio romantico, la storia di famiglia del nuovo romanzo di Giorgio Fontana. Maurizio Sartori, fondamentalmente un vigliacco, doppiamente traditore, non è un personaggio simpatico. Ci riesce anche difficile da capire come abbia potuto innamorarsene Nadia, che gli ripeterà per tutta la vita, come un mantra,  ‘troviamo un modo di volerci bene, biondino?’, e che lo puntellerà con la sua forza fino alla fine.
Dalla campagna a Udine, con altri due bambini dopo il primo, Gabriele, il figlio che aveva messo in fuga il padre. E la storia si dipana negli anni, attraverso 4 generazioni, per quasi un secolo, mentre l’orizzonte della famiglia si allarga- da Udine a Milano, no, gli affitti a Milano sono improponibili, allora ci si accontenta di Sesto san Giovanni, per poi spaziare in Europa nei tempi più vicini ai nostri con i nipoti e bisnipoti di Maurizio Sartori. Dei tre figli del contadino senza nessuna cultura, Gabriele diventerà professore di lettere e scriverà poesie, sarà uno studioso tutta la vita, Renzo farà l’operaio e Domenico, il mite, il buono, la figura Dostojevskiana dell’idiota, morirà in un campo di prigionia in Africa. Inclinazioni diverse e diverse affiliazioni politiche, per Gabriele e per Renzo e poi per i loro figli. Viviamo con loro gli anni delle proteste operaie, delle lotte sindacali e poi, più tardi, quelli del terrorismo e dell’impronta berlusconiana. Amori e tradimenti, delusioni e gioie, morti e malattie. Solo i lettori più anziani ricordano la paura dei genitori all’epoca dell’epidemia di poliomelite che colpiva soprattutto i bambini- il figlio di Gabriele si riprende miracolosamente dopo essere stato lì lì per morire. E la riflessione del vecchio Gabriele che piange la morte della moglie (come si erano sentiti in colpa per essersi innamorati mentre il fidanzato di lei combatteva sul fronte russo!) diventa quella di chi ama e non è mai stato sfiorato dal pensiero di restare solo- ‘il più osceno dei destini è sopravvivere a coloro che il tuo cuore fu così stupido da scegliere e ritenere immortali’. Parole bellissime.

      Ogni capitolo del romanzo inizia con la breve descrizione di un paesaggio o di un’atmosfera, come per sgombrarci la mente da quanto abbiamo finito di leggere nel capitolo precedente, per farci riprendere il passo e affrontare nuove storie. Sono i personaggi a dominare la scena, in questo ampio romanzo. Lo sfondo, la Storia, le azioni degli squadristi, l’avvento di Mussolini, la seconda guerra mondiale (vista soprattutto attraverso l’esperienza di Domenico in Africa), il miracolo economico, gli scioperi e poi il diffuso benessere, il diritto allo studio e le rivolte studentesche, fino alle nuove possibilità dei bisnipoti di Maurizio Sartori di studiare all’estero- tutto questo, scritto con una penna leggera, scorre come le immagini di un cinegiornale e sono i personaggi a renderlo vivo perché ci vivono dentro. Sono tutti personaggi inquieti. Sembrano tutti dover espiare la colpa di un peccato originale, il marchio del vigliacco impresso sulla fronte del padre o del nonno o del bisnonno.
Tocca a Letizia, bisnipote di Maurizio, una delle molte e belle figure femminili del romanzo, esternare il pensiero che, se ai loro nonni e padri era toccato in sorte di sopportare il dolore fisico, la fame e la povertà, alla loro generazione spettava un altro tipo di dolore, un ‘destino di ferite interiori’. La loro non era una di quelle guerre che finiscono sulle pagine di un libro. Era la costante paura del futuro, ‘e forse un altrettanto grande timore di voltarsi’: avrebbero potuto pietrificarsi ‘sotto il peso di quanto accaduto prima di loro, un cumulo insostenibile di morte e di vita, ricchezza e spreco.’
      Mi è capitato spesso di ripensare a queste parole in questi giorni di pandemia da coronavirus.

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a breve l'intervista con lo scrittore
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it


      

domenica 22 marzo 2020

Levi Henriksen, “Il lungo inverno di Dan Kaspersen” ed. 2020


                                                               vento del Nord
             romanzo di formazione
             cento sfumature di giallo

Levi Henriksen, “Il lungo inverno di Dan Kaspersen”
Ed. Iperborea, trad. A. Berardini, pagg. 352, Euro 17,50

     Sono andata a cercare su Google dove fosse Skogli, la cittadina (poco più di un paesino, in realtà) dove è ambientato il romanzo “Il lungo inverno di Dan Kaspersen” di Levi Henriksen. Un puntino segna la posizione, in Norvegia vicino al confine con la Svezia, il colore verde della mappa deve indicare che è isolato in mezzo ai boschi. È come immaginavo: leggendo il libro, mi sembrava si adattasse nordicamente al nostro “Cristo si è fermato a Eboli”, senza sole, purtroppo, in un paesaggio di neve che fiocca, con temperature che superano i 20 gradi sotto zero e gelano il corpo e l’anima. Un paesaggio di bianca solitudine che è quella del protagonista, Dan Kaspersen, che ritorna a Skogli poco prima di Natale: ha lasciato passare alcuni giorni dopo essere uscito di prigione, dove ha scontato due anni per spaccio di droga, prima di tornare a casa, dal fratello. Per scoprire che il fratello si è suicidato, senza lasciare nessun messaggio. E Dan Kaspersen non riesce neppure a restare in chiesa fino alla fine della cerimonia funebre. Inizia per lui quello che sembra essere un lunghissimo inverno e invece è il suo tempo interiore che si dilata in un dolore infinito.

       Dan e Jakob, sembravano gemelli, anche se uno era bruno e uno biondo, anche se c’erano due anni di differenza tra di loro. I genitori erano morti in un incidente  e loro due erano sempre insieme, Jakob adorante nei confronti del fratello maggiore. Jakob era quello a cui piaceva il ritmo tranquillo della vita di campagna, badare alla fattoria e all’allevamento di maiali. Dan era quello scalpitante che voleva andarsene da lì, senza sapere dove o a fare che cosa. E poi era stato incastrato da Kristian Thrane che gli aveva affidato il ‘lavoretto’ di consegnare della droga. Dan era finito in prigione- non solo, ormai aveva addosso l’etichetta dello spacciatore, era nel mirino dell’ispettore del corpo di polizia di Skogli che aveva un figlio tossicodipendente. Perciò, quando qualcuno irrompe nella casa dei Thrane e il vecchio nonno di Kristian viene selvaggiamente picchiato, è Dan che è automaticamente sospettato.
      Levi Henriksen ha scritto un romanzo di cui è difficile definire il genere. Perché è un mix di generi diversi- e la sua attrattiva è proprio in questo. Uno dei filoni da seguire è quello dell’indagine poliziesca. È chiaro che Dan è una vittima e possiamo anche immaginare chi ce l’abbia con lui, chi voglia farlo rinchiudere un’altra volta. Non è solo il vecchio Thrane ad essere aggredito, lo sarà anche Dan e scamperà per un soffio alla morte. E il suicidio del fratello? Difficile si fosse ucciso per una delusione d’amore, era da qualche mese che aveva lasciato la gemella di Kristian Thrane con cui era fidanzato (Jakob, fidanzato?). Un’altra narrativa è il filone ‘rosa’- Dan si sente attratto dalla ragazza madre che cerca di riinserirlo nella vita fuori dalle sbarre, ma non sa se abbandonarsi a questo sentimento (e se il padre del figlio di lei fosse Kristian Thrane?).

     Soprattutto, però, il romanzo è un’elegia dell’amore fraterno. Dan ricorda, Dan rimette insieme le memorie del passato, gli tornano in mente episodi dell’infanzia sua e di Jakob, e perfino la comunità pentecostale guidata da suo padre appare in una luce velata di nostalgia.
E in questa narrativa, che è l’autoanalisi di un uomo di trentasette anni che arriva a capire che non si può fuggire sempre, come sarebbe tentato di fare, ha un ruolo importante il personaggio dello zio, un uomo che ha perso entrambe le gambe ma non la voglia di vivere e il senso dell’humour. Un messaggio di positività per tutti.

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giovedì 19 marzo 2020

Dean Koontz, “The Eyes of Darkness”


                     Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
   cento sfumature di giallo

Dean Koontz, “The Eyes of Darkness”
Ed. Headline, pagg. 388, formato Kindle Euro 3,49 (solo 1,99 quando io l’ho comprato. No comment)

      Il romanzo di Dean Koontz, pubblicato per la prima volta nel 1981, dovrebbe uscire in italiano il 20 di marzo con il titolo “Abisso”, pubblicato da Time Crime. Chissà. Forse uscirà prima in ebook. In questi giorni drammatici di pandemia da coronavirus, in cui ogni notiziario è un bollettino di guerra e la sirena delle ambulanze significa soltanto una cosa, mi ha incuriosito questo libro di cui una pagina è circolata in rete- parla di un medico cinese che ha defezionato, fuggendo dalla Cina negli Stati Uniti con l’esemplare di un virus sviluppato nei laboratori di Wuhan. Un’arma perfetta che colpisce solo gli esseri umani. È stato profetico, Dean Koontz?

      Quello del bioterrorismo non è un discorso nuovo e non intendo darvi qui informazioni che si possono trovare in internet. È sempre di internet la notizia che Dean Koontz ha apportato modifiche al suo libro dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1996.
Mentre in clima di Guerra Fredda il nemico era la Russia, la versione originale del romanzo collocava in una cittadina chiamata Gorki Leninskie il laboratorio in cui veniva creato il virus Gorki-400, letale al 100% e dopo solo quattro ore di incubazione. Dopotutto non è una coincidenza che, rimaneggiando la trama, Dean Koontz abbia sostituito Gorki con Wuhan: dal 1951 c’è a Wuhan il maggior istituto di virologia cinese. Dovremmo piuttosto domandarci se è una coincidenza che l’epidemia che doveva trasformarsi in pandemia oggi, nel 2020, abbia avuto inizio a Wuhan e non, per dire, a Shanghai o a Calcutta o a Mogadiscio.
Ho comprato il libro perché mi incuriosiva e costava pochissimo in inglese. E meno male perché, al di là di questo riferimento che ci tocca in modo particolare, non è un grande romanzo e, tutto sommato, la trama è banale e piuttosto prevedibile, sulla scia dei romanzi horror e con fenomeni parapsichici spinti veramente al di là del credibile anche per chi ci crede.
Istituto di virologia di Wuhan
      Tina Evans ha perso il suo bambino due anni prima- un incidente durante una gita con gli scout. Non le avevano lasciato vedere il corpo, le avevano detto che per lei era meglio così. Ora Tina ha la sensazione che Danny sia ancora vivo. Fa dei sogni raccapriccianti, nella stanza di Danny accadono cose che solo la presenza di un Poltergeist potrebbe spiegare. E se fosse che il bambino vuole farle arrivare dei messaggi? Se fosse che vuole farle sapere che è vivo e che ha bisogno di aiuto? Se fosse che la sta chiamando a sé?

     Tina, che si è separata dal marito dopo la morte di Danny, incontra un nuovo amore, un uomo che fa l’avvocato e che era, in passato, nei Servizi. Insieme si metteranno in cerca della verità sull’incidente in cui morirono tutti i ragazzini e i loro accompagnatori. Ovvio che sia una ricerca piena di pericoli perché nessuno deve sapere del laboratorio nascosto nella montagna dove si sperimenta il virus Wuhan-400. Ovvio che Tina e Elliot si lascino qualche morto alle spalle. Ma c’è il piccolo Danny che, in una maniera tutta sua e che Tina riesce ad interpretare, li protegge e li guida.
     Un libro da leggere per curiosità. In un altro momento non lo avrei letto.

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martedì 17 marzo 2020

Daniel Mason, “Soldato d’inverno” ed. 2020


                            Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                     prima guerra mondiale

Daniel Mason, “Soldato d’inverno”
Ed. Neri Pozza, trad. Ada Arduini, Euro 18,00, ed. Kindle 9,99

     Febbraio 1915. Lucius è l’unico passeggero a scendere dal treno in una stazioncina semisepolta dalla neve a cinque ore a est di Debrecen, in Ungheria. Un ussaro lo aspetta, con due cavalli. Si avviano verso nord, con la neve che fiocca. “Da qualche parte, laggiù, c’erano Lemnowice e l’ospedale di reggimento della Terza armata nel quale avrebbe prestato servizio.”
      Questo l’inizio del romanzo- stupendo- di Daniel Mason, “Soldato d’inverno”.
Lucius, ventidue anni, è il sesto figlio (quello nato per sbaglio) di una ricca e nobile famiglia polacca che abita a Vienna. Lui si vergogna un poco delle sue origini che cerca di nascondere e, tra lo sconcerto dei genitori, ha scelto di studiare medicina- la sua passione. Allo scoppio della guerra Lucius non è ancora laureato ma si arruola, rendendo felice il padre, che è stato ferito a Custoza e parla di vecchie glorie, e la madre, che è contenta di trincerarsi dietro quel figlio che combatte per l’Impero mentre la loro famiglia si arricchirà durante la guerra con i proventi delle miniere.

     Dire che c’è un ospedale a Lemnowice è un’esagerazione. C’è una chiesa convertita in ospedale, con un grande foro nel soffitto e un cratere nel pavimento. C’è un tavolo operatorio formato da due panche accostate. Una suora (l’ultima infermiera rimasta) lo riceve con un fucile in mano. C’era un dottore, forse è impazzito e comunque è scappato. Nessun libro di testo aveva preparato Lucius a quello che lo aspetta, tanto più che l’unica volta che aveva messo le mani su un paziente era stato per levargli un enorme tappo di cerume da un orecchio. Arti da amputare, mandibole mancanti, ossa craniche spaccate- per elencare alcuni casi. Oltre a quel male che verrà poi chiamato Stress Post Traumatico, che rendeva i soldati catatonici, che li faceva urlare in preda agli incubi nella notte. Era una fortuna che Lucius si fosse fratturato un polso alla partenza, anche se allora aveva maledetto la sua caduta sul ghiaccio. Così poteva affiancare Sorella Margarete e imparare da lei che chissà da chi aveva imparato. Sembrava sapere tutto, era capace di fare tutto, segare e amputare, ricucire e diagnosticare, sempre presente, infaticabile, serena e perfino allegra, energica e dolce. Combattono insieme, Margarete e Lucius, la loro guerra contro la Grande Mietritrice che può nascondersi anche sotto l’aspetto dei temutissimi pidocchi o dei ratti. Strappano alla morte i soldati che continuano ad essere scaricati in quella chiesa-ospedale per poi assistere impotenti a vederseli portare via per essere rimandati al fronte, ad una seconda morte. E c’è un soldato che Lucius si rifiuta di consegnare. Doveva aver subito qualche indicibile trauma, a giudicare dalle condizioni in cui era arrivato. Aveva fatto il suo bene, Lucius, a trattenerlo? È questo un punto chiave della trama, quello che dà una svolta al romanzo, insieme al prevedibile cambiamento nei rapporti tra Lucius e Margarete.

       Ogni pagina, ogni parola del “Soldato in inverno” è puro piacere. L’ambiente elegante della Vienna asburgica, così come l’approccio antiquato alla medicina del vecchio professore di Lucius sono descritti con lieve ironia; il viaggio dell’inesperto Lucius prima e quello di un paio d’anni più tardi sembrano uscire da un libro di avventure, scritto però da qualcuno che ha l’occhio del poeta o dell’artista nel vedere i colori del bosco o i voli del corvo o nel sentire il rumore della neve che cade; l’empatia di Lucius nei confronti dei soldati feriti, la leggerezza delle sue mani sul loro corpo, la dedizione con cui si prende cura di Margarete dopo la sceneggiata da lei fatta per impedire un altro rastrellamento di soldati, fanno di lui un personaggio che amiamo e che vorremmo vedere felice. Quanto a Margarete- è indimenticabile, è unica, capace di imbracciare il fucile e di incredibile dolcezza. E ci riserba delle sorprese, compresa quella del finale che riequilibra tutto, che porta la pace interiore in un mondo che sta gustando la pace dopo quattro anni di guerra.

      Un libro bellissimo. Un romanzo di formazione in cui il rito di passaggio all’età adulta non è una sola morte ma una carneficina, una storia di guerra e una grande storia d’amore. Di Amore vero.

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lunedì 16 marzo 2020

Coronavirus 2020


                                                   Emergency


Khajuraho 16 marzo 2019
La foto è dello scorso anno. Non ho voluto mettere una foto di Milano, tristissima e vuota. Ho fatto ricorso a quello che Wordsworth definiva "that inward eye which is the bliss of solitude"- quell'occhio interiore che è la benedizione della solitudine. Benedetta sia la memoria delle cose belle.

     Non mi piace mettere dei post personali su questo, che è un blog in cui si parla di libri. Ma è un momento speciale, un momento che si è dilatato nel tempo e che ci ha fatto perdere la nozione del tempo interrompendo ogni nostra routine.
   È più di una settimana che non metto piede fuori casa, dovrei avere tanto tempo libero per leggere e aggiornare il blog. Invece non l’ho fatto e volevo chiedere ai miei lettori di pazientare se non lo farò con regolarità. Ho la strana sensazione di stare vivendo dentro il peggiore romanzo distopico che abbia mai letto ed è questo romanzo che mi distrae.
    Peraltro combatto come posso questa guerra dove il nemico è invisibile. Sono convinta che ci voglia un’autodisciplina giornaliera per non lasciarsi andare alla deriva. Forse manco di concentrazione ma la mia giornata inizia con esercizi di ginnastica, prosegue con lavarsi e vestirsi di tutto punto, con collana e orecchini come se dovessi incontrare qualcuno, per dedicarmi poi a rispolverare il tedesco (la lingua straniera che so meno) prima di proseguire con le letture dei libri di cui vi parlerò. Il pomeriggio è dedicato a seguire online i nipotini, uno dopo l’altro- e sono cinque in età scolare-, aiutandoli con i compiti e le lezioni, sostituendomi agli insegnanti che, purtroppo, non fanno quello che dovrebbero.
    Termino con parole di augurio per tutti. Perché usciamo rafforzati da questa prova. Perché sia occasione di riflessione. E cercherò di essere più puntuale nel proporvi suggerimenti di lettura.
   

sabato 14 marzo 2020

Katharine Burdekin, “La notte della svastica” ed. 2020


                                             Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                      distopia


Katharine Burdekin, “La notte della svastica”
Ed. Sellerio, trad. Alfonso Geraci, pagg. 323, Euro 15,00

      No, questo non è semplicemente ‘un altro’ romanzo distopico sul nazismo, ‘un altro’ libro che prospetta un mondo in cui la Germania ha vinto la guerra- e il nostro primo pensiero va alla “La svastica sul sole” di Philip Dick. La singolarità de “La notte della svastica” è, prima di tutto, nel fatto che è stato scritto nel 1937, precedendo di ben due anni la prima mossa aggressiva dell’esercito nazista. E, secondariamente, nel fatto che sia stato scritto da una donna che ha pubblicato a lungo le sue opere sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine e che ha dato un’impronta decisamente femminile alla sua distopia, in un’anticipazione della prospettiva da cui Margaret Atwood ha scritto “Il racconto dell’ancella”.
     È il 720 dopo Hitler. Dopo la vittoria sugli alleati, Germania e Giappone si sono spartite il mondo- alla Germania l’Europa e l’Africa, al Giappone l’Asia e l’America. Una nuova teologia impone di credere in Hitler che non è ‘nato’ come tutti i mortali ma è ‘esploso’e in una divinità chiamata il Tonitruante. La Storia è stata ritoccata (come nell’altro regime totalitario in “1984” di Orwell) perfino in quello che sembrerebbe un dettaglio irrilevante- alla statura di Hitler sono stati aggiunti una cinquantina di centimetri: poteva un semidio essere piccolo e insignificante?

    L’inizio è una cerimonia della nuova religione in cui si recita la nuova versione del Credo (in Dio il Tonitruante…e nel Suo Figlio, il nostro Sacro Adolf Hitler…) e si elencano le leggi che stabiliscono una graduatoria, Come un uomo è superiore alla donna, così un nazista è superiore a ogni hitleriano straniero…I nazisti, dunque sono la razza eletta in questa nuova società, i Cavalieri sono i loro ‘capi’, gli inglesi vengono dopo, i cristiani sono ghettizzati come lo erano gli ebrei durante il nazismo- gli ebrei sono scomparsi, si dice che siano stati assimilati dalle altre nazioni dove non sia stata fatta ‘piazza pulita’- e in fondo, ma proprio in fondo, ci sono le donne che stanno solo uno scalino sopra ai vermi. Disprezzate perché prive di intelligenza e pronte ad adattarsi a qualunque volontà maschile, vivono in un enorme recinto e servono solo a fare figli che non possono neppure veder crescere: a diciotto mesi i maschietti vengono loro sottratti, soltanto le femminucce- una vergogna- restano con loro.
    
Ad un inglese intelligente che ha avuto il permesso di compiere un pellegrinaggio in Terra Santa (la Germania, dove la Mecca è l’Aeroplano Sacro) spetta il ruolo del rivoluzionario che programma di distruggere la Società Hitleriana. È a lui che un Cavaliere affiderà un testo tramandato da padre in figlio nella sua famiglia, un libro scritto in segreto dal Cavaliere von Hess (ha lo stesso nome del molto discusso Rudolf Hess che volò in Scozia per proporre un armistizio) in cui c’è l’intera vera Storia ricostruita a memoria prima che se ne perdesse ogni ricordo dopo il rogo di tutti i libri. È in questo libro, che l’inglese dovrà nascondere e custodire, che si può apprendere l’origine della trasformazione delle donne- è incredibile, le donne che sono adesso così brutte, mortificate in rozzi abiti marrone, una volta lavoravano perfino, abitavano insieme ai ‘mariti’ e ai figli, erano gloriosamente belle come la ragazza bionda con le trecce che appare accanto a Hitler in una foto preziosa conservata nel libro.
Rudolf Hess

     È un romanzo che anticipa i temi di molti libri, “La notte della svastica”, che stupisce per la perspicacia con cui la scrittrice ha visto il rapporto tra violenza e sessualità, ha capito il ruolo di ‘fattrice’ che nazismo e fascismo avrebbero riservato alle donne, ha messo in guardia dal pericolo di sottomissione adorante.
Se il libro ha un difetto, è quello di aver affidato il suo messaggio, più che al comportamento dei personaggi, a lunghi dialoghi tra il Cavaliere che potrebbe essere accusato di tradimento e l’inglese che trama il tradimento e la ribellione.

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