Voci da mondi diversi. Cina
il libro ritrovato
Han Dong, “Mettere radici”
Ed.
ObarraO, trad. Pietro Ferrari, pagg.328, Euro
18,00
Titolo
originale: Banished
Ma
c’è ugualmente qualcosa che mi lascia ancora perplesso. Non esiste un solo
quaderno con una qualunque traccia dei suoi sentimenti personali: insomma non
c’è alcuna espressione di un’emozione o di una riflessione condotta con calma.
Non un accenno alla sfera soggettiva, non una traccia della famiglia a Sanyu.
In effetti i suoi quaderni non mi sono stati di alcun aiuto nella stesura di
questo libro. In ciò c’è un vantaggio. Se Tao avesse riempito i suoi quaderni
di informazioni su di sé e la sua famiglia, allora il mio romanzo sarebbe stato
superfluo.
Ci sono epoche e avvenimenti caratterizzati da un loro linguaggio.
Citando il poeta Yang Li, l’autore di “Mettere radici”, Han Dong, dice: “Il
linguaggio è il mondo....Una caratteristica essenziale di parole (o epoche)
misteriose e sconcertanti è che sono avvolte, e abbellite, da un linguaggio
misterioso e sconcertante.” Le espressioni di questo mondo hanno un significato
solo in un momento preciso e nel contesto in cui sono state coniate. E’ per questo
che sarebbe necessario un dizionario dei vari termini: come ha fatto Victor
Klemperer, scrivendo “La lingua del terzo Reich” per le fantasiose circonlocuzioni
inventate dai nazisti, qualcuno dovrebbe pensare a scrivere un dizionario per quelle della Cina di Mao.
Perché quanti tra i giovani sanno che cosa si intendeva per “RivCult dei
dieci anni”, “giovane urbano”, “quadro
esiliato” o “Glorioso esilio” o “Scuola Quadri 7 Maggio”?
Nel 1969
lo scrittore Tao Peiyi, il protagonista
di “Mettere radici”, viene esiliato in
campagna insieme alla sua famiglia- la moglie, il padre (Nonno Tao), la
madre e il figlio Taotao di nove anni. Da Nanchino a Sanyu, vicino al lago
d’acqua dolce Hongze. Da una bella abitazione di città ad una stalla fatta con
mattoni di fango e paglia. Da un’attività intellettuale alla coltivazione dei
campi. Ma sono proprio questi cambiamenti radicali che giustificano l’esilio,
che diventa ‘glorioso’ perché redime i
borghesi intellettuali una volta che avranno imparato dai contadini a vivere
la vera vita, quando si saranno ‘immersi’ nella vita- il che significa sudare
nei campi, sporcarsi le mani e fare a meno di quanto rende facile, comoda e ‘borghese’ l’esistenza
quotidiana. Ma lo scopo dell’esilio glorioso è duplice- non solo imparare dai
contadini, anche ‘mettere radici’ è importante. Mettere radici significa avere capito lo spirito dell’esilio, avere
accettato la giustezza di quella che va intesa come una possibilità di salvezza
e non una punizione, non desiderare più
di tornare allo stile di vita di prima.
Il libro di Han Dong non trasforma in
poesia la quotidianità della durezza dell’esilio, come fa il romanzo “Balzac e
la piccola sarta cinese” di Dai Sijie, anzi, potrebbe sembrare di una piattezza
sconcertante. Eppure la sua bellezza è proprio in questo: nel descrivere ogni dettaglio della nuova vita dei Tao,
adottando diversi punti di osservazione che si focalizzano anche su diversi
personaggi. Riesce così a raccontarci di come il piccolo Tao si fosse unito
agli insulti delle Guardie Rosse nei confronti del padre (perché gli piaceva
tutta quella furia iconoclasta), come i contadini si fossero rimirati
esterrefatti nello specchio sull’anta dell’armadio che i Tao si erano portati
da Nanchino, la moglie di Tao avesse imparato a curare con le erbe per mettersi
al servizio del popolo, nonno Tao fosse perennemente costipato senza neppure
potersi isolare per alleviare le sue viscere. Quanto a Tao, il famoso scrittore
Tao, c’è in lui forse un orgoglio nascosto nell’essere in grado- proprio perché
istruito e convinto che tutto si può imparare sui libri- di avere dei risultati
di gran lunga migliori di quelli dei contadini del posto, nella coltivazione
dei campi. Eppure, con una qualche giustificazione ufficiale, c’è in serbo una punizione per l’orgoglio di Tao-
l’espulsione dal partito. Così come sua moglie sarà messa sotto indagine,
accusata di affiliazione ad un gruppo controrivoluzionario: Su Qun confesserà,
ma quanto è difficile confessare quando
non si ha nulla da confessare!
La parte finale del romanzo è interamente
centrata su Tao scrittore e sulla triste conclusione della sua vita quando il
peggio è passato, la famiglia è tornata a vivere a Nanchino e Taotao è
all’università. Sono pagine interessantissime e molto belle perché, attraverso
lo schermo del suo personaggio, è la scrittura stessa dell’autore Han Dong che
trova qui la sua giustificazione. La produzione letteraria di Tao non era stata
ampia e, soprattutto, si era dovuta adeguare alla massima “servire la
politica”. Non esisteva l’arte per l’arte nella Cina di Mao. La poesia di
alcune descrizioni lacustri (che Han Dong asserisce essere state fatte da Tao)
affiora quasi suo malgrado. Prevale- nel romanzo di Han Dong così come nelle
opere di Tao- una ironia gentile,
così lieve da essere percepita solo dal lettore attento e sensibile. Così come
solo una lettura accurata avverte la
tristezza di questo romanzo celata sotto il voluto entusiasmo del volersi
adeguare: i Tao hanno passato sei anni nel Glorioso Esilio, tesi nello sforzo
di mettere radici. A che pro, alla fine?
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
Nessun commento:
Posta un commento