Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
romanzo di formazione
Ivana Bodrožić, “Hotel
Tito”
Ed. Sellerio, trad. Estera Miočić, pagg. 177, Euro 15,00
Vukovar, sul confine tra Serbia e Croazia. È l’estate del
1991. La bambina non può sapere quanto sia vicina la guerra. Sa che, però, il
papà le ha proibito di parlare in serbo perché, ‘noi siamo croati,
maledizione!’. E’ allegra, la bambina, perché stanno facendo le valigie per
andare al mare. Lei, 9 anni, e suo fratello di sedici andranno al mare. Di
nuovo, non sa che è una misura prudenziale, che il soggiorno al mare si
prolungherà, che la mamma li raggiungerà e andranno insieme a casa dello zio a
Zagabria, che non vedrà mai più suo padre, rimasto a difendere Vukovar e
scomparso nella strage compiuta dalle truppe jugoslave nell’ospedale della
città.
Inizia così l’esilio della bambina con mamma e fratello, dapprima ospiti
di parenti, ma ogni convivenza è difficile quando è prolungata. Iniziano i
litigi meschini- tocca a me andare prima in bagno perché la casa è mia, dice
una cugina; ci finisci tutto il pane, accusa l’altra a colazione. Dopo il
tentativo di stabilirsi in un appartamento vuoto, approdano a quella che sarà
la loro ‘casa’ per sette anni- una stanza nell’ex Scuola di Politica, o Hotel
Tito, a Kumrovec. È qui che la bambina diventerà grande, senza mai perdere
l’allegria, con la caparbia volontà di andare avanti, rivendicando il suo
diritto ad un’adolescenza normale. E, mentre le nonne litigano, il nonno beve,
arriva la notizia che l’altro nonno è stato sgozzato e la mamma e il fratello
continuano a scrivere lettere esponendo la loro situazione sempre più
invivibile, esigendo che gli venga assegnata una casa. Del padre non si è mai
saputo niente e, paradossalmente, l’incertezza sulla sua sorte è peggio, dal
punto vista pratico e legale, che se fosse morto.
Intanto la bambina che è diventata una ragazzina brucia le tappe, si
innamora, si disamora, scopre l’esaltazione del primo bacio e della prima
sigaretta, si veste con gli abiti della Caritas, ma ha estro e fantasia- non è
mai banale, quello che indossa non sa di vecchio e di usato. È bravissima a
scuola, i suoi componimenti sono sempre i migliori, andrà a frequentare il
liceo a Zagabria, alloggiando in uno studentato. E qui rischia di perdersi.
“Hotel Tito”, con questo titolo così ironico che è lo stesso
dell’albergo in cui alloggia la protagonista (alla famiglia che la ospita per
un breve periodo in Italia, lei cerca di spiegare, “Tudman buono, Tito no”), è
un romanzo di formazione molto bello e originale.
Con lievità, freschezza e
spontaneità, la voce narrante ci racconta prima di tutto di sé e della sua
famiglia, di che cosa voglia dire diventare grandi non avvolti nel bozzolo
protettivo di casa-mamma-papà-fratello-nonni. Perché la casa non c’è più, al
papà è meglio non pensare e, quando, verso la fine del libro, la bambina
diventata grande ricostruisce la scena di quello che accadde all’ospedale di
Vukovar il 20 di novembre del 1991, l’orrore è immenso: c’è da ringraziare che
non ne sia venuta a conoscenza prima. Perché, mentre gli anni che passano sono
scanditi dalle inutili lettere alla Commissione Alloggi e le mode riescono
ugualmente ad arrivare in Croazia- i Levi’s, le Dr. Martens, le magliette messe
al contrario- la guerra resta un’eco lontana. Si vive il dolore della guerra in
“Hotel Tito”, se ne sperimentano le conseguenze, si soffre per quella
discriminazione che isola e che, nello stesso tempo, a volte con malignità li
trasforma da vittime in profittatori. Ma dei fatti, delle atrocità- di quello
non si sa nulla.
Tradotto in dieci lingue, “Hotel Tito” ha vinto il premio Ulysse come
miglior opera prima.
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