vento del Nord
David Lagercrantz, “Il cielo sopra l’Everest”
Ed.
Marsilio, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 348, Euro 19,00
Nel 1996 una spedizione per raggiungere la
cima del monte Everest terminò tragicamente: 8 morti si aggiunsero alle quasi
duecento vittime del ‘mal d’Everest’. Diverse le cause del dramma. Il
sopraggiungere di una tempesta (si sa, però, che il tempo può cambiare
improvvisamente a quell’altezza), il ritardo con cui gli scalatori raggiunsero
la vetta (anche questo è risaputo, si deve essere in cima entro le 14 per
incominciare subito la discesa e non essere colti dal buio e dal gelo che cala
con la notte), l’alto numero degli arrampicatori che causò rallentamenti
nell’ascesa (e questo innesca la discussione sui pericoli dell’aver trasformato
uno sport arduo, che richiede allenamento, disciplina, preparazione, idonee
condizioni fisiche, in una escursione turistica).
E’ a questi fatti che si ispira “Il cielo
sopra l’Everest” dello scrittore svedese David Lagercrantz, un romanzo che
mescola realtà e immaginazione, personaggi che rispecchiano i veri partecipanti
della spedizione ed altri inventati, un libro che affascinerà sia gli amanti
della montagna sia chi non ha mai fatto un’arrampicata in vita sua e si chiede,
perché? perché correre tali rischi, perché sottoporre il proprio corpo a tali
sforzi e a tali sofferenze?
La risposta data da George Mallory, l’alpinista
inglese morto sull’Everest nel 1924, ad un giornalista che gli aveva chiesto
perché voleva raggiungere la cima della montagna che, con i suoi 8848 metri, è
la più alta del mondo, è rimasta famosa. “Perché è lì”, aveva detto. Perché è
il simbolo “del desiderio dell’umanità di conquistare l’universo”. George
Mallory era un ‘puro’, scalava al tempo in cui non c’era attrezzatura termica
adeguata e neppure c’erano le bombole d’ossigeno che attenuassero il male da
altura (le conseguenze dell’insufficienza di ossigeno che arriva al cervello
sono descritte in maniera straordinaria e terrificante da Lagercrantz). E
tuttavia non era forse meglio basarsi solo sulla capacità di adattamento del
fisico umano che permetteva di rendersi conto fino a dove ci si poteva
spingere?
I livelli di lettura de “Il cielo sopra
l’Everest” sono diversi, tutti coinvolgenti e appassionanti.
Primo
livello, quello vicino ai fatti reali: storia di una spedizione famosa da cui è
stato tratto anche un film, ricca di dettagli sul campo base, le difficoltà
delle varie tappe, l’avvicinarsi della tormenta, la catastrofe.
Secondo
livello, il filone romanzesco: le vicende dei vari personaggi, la rivalità tra
la guida italiana Giuseppe Cagliari (ad inizio del libro è solo, accasciato
nella neve, sente la fine avvicinarsi e, con un misto di soddisfazione e
colpevolezza, pensa che il suo rivale, l’imprenditore di successo Paolo
Villari, deve essere già morto), le storie della donna che dirige e organizza
il campo base, della guida nepalese che spera, un giorno, di poter cambiare
vita, dei fedelissimi sherpa senza i quali gli scalatori amatoriali non
potrebbero muovere un passo, dei clienti che- ognuno con il suo proprio motivo-
vogliono arrivare in vetta, dello scalatore in solitaria, Jacob Engler, infine,
quello che interpreta l’antitesi degli scalatori da strapazzo, l’esagerazione
dell’alpinismo, l’uomo che inconsciamente sfida la morte cercandola di
continuo.
Terzo
livello, e lo chiamerei il filone della religione della montagna: gli occidentali
hanno perso il senso del Sacro ma tutti gli orientali sentono fortemente la
spiritualità della natura, l’Everest- i nepalesi lo chiamano Chmolungma, e
quanta alterigia, disprezzo, senso di superiorità di stampo colonialista c’è
nella voce di Paolo Villari che neppure riesce a pronunciare questo nome- è una
divinità a cui bisogna innalzare un piccolo stupa, un altare, prima di violare
i suoi fianchi, bisogna appendere bandierine di preghiera, non lo si deve far
adirare con comportamenti profani (tutta quella promiscuità e quel sesso nel
campo base, che orrore), si devono interpretare i segnali che invia. Il
messaggio finale è che non si scala la Dea madre del mondo per divertimento.
Quarto
livello, quello del thriller, che tiene avvinti fino all’ultima pagina. Lo
scrittore scava nei suoi personaggi- a qualcuno di loro si può attribuire una
responsabilità maggiore per la morte di un compagno di scalata?
Questo
è, infine, un thriller grandioso in cui c’è un assassino grandioso e sappiamo
dall’inizio chi è: la splendida montagna ‘che è lì’, che stuzzica e sfida, che
si vendica, impassibile, dell’arroganza e della superbia degli ometti che
violano il suo candore.
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