Voci da mondi diversi. Africa
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Hisham Matar,
“Nessuno al mondo”
Ed. Einaudi, trad. Andrea Sirotti, pagg. 233, Euro 17,50
“Siamo due metà della stessa anima, due
pagine aperte dello stesso libro”, era solita ripetere la madre all’unico
figlio Suleiman, voce narrante del romanzo “Nessuno al mondo” di Hisham Matar, che
è nato nel 1970 a
New York da genitori libici e vive attualmente a Londra. E la storia raccontata-
di una madre, di un figlio, di un paese- è ambientata a Tripoli nel 1979,
“l’ultima estate prima che mi mandassero via”. C’è qualcosa di così definitivo
nell’aggettivo “ultima”, di così sofferto nel subire l’azione di quel verbo che
ha un soggetto plurale, come un’anticipazione della causa della pena che è poi
l’allontanamento dalla madre, l’altra metà della sua anima. Per il suo bene,
sotto tutti i punti di vista- incolumità fisica e indipendenza affettiva-, come
vedremo leggendo di quei giorni arroventati di sole e di parole di rivoluzione.
Ci sono forti contrasti nel romanzo “Nessuno
al mondo”: luce degli esterni e ombra degli interni, voci bisbigliate in casa e
risonanti dall’altoparlante nelle piazze, normalità apparente e torture neppure
tanto celate, due personaggi, mama e baba, verso cui il bambino Suleiman è
ugualmente e diversamente attratto. La mamma ha solo ventiquattro anni, Suleiman
resta spesso solo con lei, quando il padre è in viaggio per lavoro. E Suleiman,
nove anni, è innamorato della mamma, sente il padre come un intruso quando deve
cedergli il posto nel lettone. Soltanto che anche la mamma cambia letto, quando
il padre rientra- si sposta a dormire sul divano. Un padre che è un rivale
nell’affetto per la mamma, ma anche una figura da ammirare, colto, raffinato,
elegante.
Ci sono poi le zone d’ombra,
tutto quello che il bambino non capisce interamente e che noi lettori
interpretiamo ascoltando la sua voce: per lui la mamma è spesso “ammalata”,
beve una medicina da una bottiglia con un liquido trasparente che compera- di
nascosto- dal panettiere, poi la voce le si fa strana, ridacchia, gli racconta
di quando l’obbligarono a sposare baba perché suo fratello l’aveva vista con un
ragazzo in un caffè. E qual è il mistero di baba? Suleiman è sicuro di averlo
visto entrare in un palazzo in centro a Tripoli, che strano, avrebbe dovuto
essere all’estero per lavoro, portava degli occhiali neri.
Sono i giorni in
cui Gheddafi vuole stroncare il tentativo di ribellione studentesca che reclama
la democrazia: attraverso gli occhi del bambino noi vediamo (e vediamo
soltanto) il ritratto della “Guida” venire appeso frettolosamente in casa, una auto
bianca con uomini dagli occhiali scuri a bordo fermarsi davanti all’abitazione
dei vicini e portare via zio Rashid, professore universitario. Quando la stessa
auto seguirà quella di sua madre, quando resterà stazionata davanti alla loro
casa e gli uomini entreranno chiedendo del padre, Suleiman diventa consapevole
della minaccia nascosta. E a questo punto la storia diventa una vicenda
sull’amore e sulla lealtà, sul coraggio e sul tradimento, e soprattutto sulla
fragilità umana. Libri e carte dati alle fiamme, telefoni intercettati,
interrogatorî e torture trasmesse per televisione, impiccagioni allo stadio-
uno spettacolo per le folle. C’è chi riesce a non tradire e poco importa se il
suo corpo cede alla fine (lo zio Rashid), c’è chi tradisce per sentirsi
importante (il bambino), c’è chi tradisce e ritorna a casa come un ammasso di
carne sanguinolenta. Il bambino non riconosce suo padre, l’amico di sempre lo
disconosce, la moglie che non lo ha mai amato inizia ad amarlo. E Suleiman
capisce che la vita non è come nei film western dove alla fine arrivano sempre
“i nostri” a salvare la situazione e i cattivi fuggono a cavallo. Qui e adesso,
sono i buoni a dover scappare. E’ lui che i genitori mettono in salvo in Egitto
dopo quell’ultima estate insieme. Incontrerà di nuovo solo la madre, quindici
anni dopo.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos
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