Ero ansiosa di incontrare Michela
Murgia, di parlare con lei del personaggio dell’accabadora che mi pareva
l’immagine della misericordia, una consolazione per il timore di sofferenze
senza fine. E, quando mi si è avvicinata, nella folla dello stand Einaudi alla
fiera del libro di Torino, l’ho riconosciuta senza averla mai vista- piccola,
con le belle tinte more dei sardi, gli occhi scuri che non sono prerogativa
esclusiva dell’isola ma che, laggiù, assumono una profondità di mistero. E ho
parlato con lei del suo libro.
Iniziamo dalle due figure fondamentali: esiste veramente un personaggio
con il ruolo dell’accabadora?
Esiste nella narrazione. Si racconta che
sia esistita una figura del genere e quindi per me è come se fosse esistita: la
narrazione genera mondi dove la gente va ad abitare. C’è una scuola molto
severa di antropologi sulla figura dell’accabadora e non tutti sono concordi.
Cioè sono tutti d’accordo che ci siano stati episodi di accabadura ma non che
sia esistita una figura a cui la comunità deve questo ruolo. In sintesi:
accabadura forse; accabadora no. Esistono anche cinque versioni su ‘come’
l’accabadora eseguiva l’atto: con un colpo di martello sul petto o sulla noce
di capocollo; con uno spillone d’osso nell’orecchio; con le mani per
soffocamento; con un giogo di legno posto dietro il collo- e questa è la
narrazione più diffusa. La studiosa Dolores Turchi ha fatto una ricerca sulla
simbologia del giogo di legno, che è un simbolo sacrale: le persone faticano a
morire perché hanno compiuto azioni sacrileghe, come l’aver bruciato un giogo o
spostato una pietra di confine. Sono gesti che determinavano la sopravvivenza-
portare via uno strumento di lavoro o rubare della terra. Comunque, in
definitiva, se l’accabadora è esistita, è stato in tempi molto lontani.
Ma un’accabadora è pagata per quello che fa? Tutti sanno di lei?
No, non era pagata. Veniva affidato a lei
l’incarico per non suscitare sensi di colpa, perché i parenti sfuggissero a
sospetti di un secondo fine. Non veniva pagata, a volte le veniva dato qualcosa
da mangiare. Perché lo faceva, allora? Agiva sul mandato della comunità in un
contesto in cui i mandati comunitari soverchiavano la volontà del singolo.
Spesso l’accabadora era anche la levatrice del paese- ‘sa femina pratica’, era
la donna esperta, colei che sa che cosa fare quando è necessario farlo. Perciò
era chiamata in diversi momenti della vita: la nascita e la morte.
Era una forma primordiale di eutanasia?
Ecco no, era diversa,
bisogna vederla in un’economia di sussistenza, magari la sua azione era
richiesta per sollevare una famiglia dal peso. Perché, in quell’economia, una
persona in quelle gravissime condizioni portava via braccia necessarie ai
lavori. Non c’è in gioco la dolce morte ma la sopravvivenza dei sani. Nel caso
della sofferenza della persona che lo chiedeva, lì l’accabadura era legittimata
da un contesto sociale. L’accabadura è un atto sociale, l’accabadora è una
donna che agisce per mandato della comunità in una situazione riconosciuta di
necessità da tutti. Ricordiamoci che il cristianesimo non era ancora penetrato
nella società. L’eutanasia come la viviamo oggi è la sublimazione di una
solitudine del singolo che soffre e della famiglia che è l’unica che si fa
carico di questo dolore.
E il fillus de anima- parola
bellissima? Mi domandavo se il romanzo sia ambientato negli anni ‘50 perché ai
nostri tempi ci sarebbero seri problemi legali sia per l’accabadora sia per la
seconda madre di un fillus de anima…
Io sono una fill’e anima. E’ una cosa
molto comune…E’ un patto sulla parola in un contesto in cui la parola vale come
atto burocratico. E’ l’unico elemento autobiografico nel libro. La maggior
parte dei casi di fill’e anima avviene per affetto da parte di entrambe le
madri e il bambino viene coinvolto, gli si chiede se è d’accordo. Una madre dà
via il suo bambino perché in realtà non lo perde in questa maniera, e il
bambino acquista un’altra madre. In genere si instaura una bella relazione in
cui si passa la patria potestà alla nuova famiglia. In questo momento ci sono
almeno dieci figli dell’anima a Cabras, in provincia di Oristani, dove vivo io,
e non ho conoscenza di rapporti interrotti.
E come vive il bambino questa separazione?
E’ una situazione che va
letta nel contesto in cui avviene: al mio paese i bambini giocavano in strada e
qualunque mamma scendesse in strada sgridava chi doveva essere sgridato. E’ un
concetto esteso di corresponsabilità in un contesto in cui la privacy proprio
non esiste. Non c’è una cosa che riguardi solo me. E il fill’e anima è la
risposta relazionare che quella comunità dà ai bisogni delle famiglie: farsi
assistere nella vecchiaia; la controparte per il bambino è la migliore qualità
della vita. Cambia anche la prospettiva del bambino, perché si diventa figlio
unico. Conoscevo però una famiglia che già aveva cinque figli suoi e ha preso
un sesto fill’e anima. E dopo lo ha anche adottato.
I fillus de anima vengono
presi quando sono piccoli?
Di solito sì, io però
avevo già diciassette anni. Ma si ha qualche segnale prima: magari verso i
quattordici anni ti chiamano per aiutare in qualche lavoretto e inizia così la
relazione con quella nuova famiglia. Quando arriva la proposta la relazione è già
molto stretta, e tutte le parti entrano nella decisione finale. A me fu
chiesto, ad esempio, se ero d’accordo. Nelle comunità tutte le persone anziane
vengono chiamate “zia” o “zio”: il rapporto comunitario è così stretto che
viene qualificato come un ruolo parentale.
Come mai sono quasi del tutto assenti gli uomini dal suo libro?
Gli uomini sono
assenti: è vero. Quelle decisioni le prendevano le donne. In quel contesto
l’uomo non ha il ruolo di tessere la comunità. E’ vero che ho scritto un
romanzo di uomini morti anche quando sono vivi: io sono cresciuta in un
contesto di donne forti. In Sardegna il matriarcato è una cosa seria perché
comunque il ruolo di dar coesione alla comunità è delle donne e non degli
uomini, nel contesto in cui scrivo.
Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 la Sardegna ha subito una trasformazione enorme: la
differenza tra me e mia madre non è di 45 anni ma di 200 anni: le trasformazioni
sono state così rapide da fare un salto temporale come mai si è verificato
prima. Io cerco di rendere questa idea nel diverso modo di recepire
l’accabadura. La vecchia la prende come normale, per la bambina è
inaccettabile. E’ un conflitto di valori ancora in atto, in maniera meno
radicale perché c’è stato il tempo a stemperarla. Per me questa non è una
Sardegna arcaica, sono cose che ho vissuto e che in me si riconciliano- e io
sono una donna moderna. Per me narrare è un atto di ricomposizione, per riunire
trame diverse di passato e presente. C’è poi da tenere in conto anche la
tradizione orale così viva nella Sardegna- io ricordo la nonna che raccontava,
c’è una forte eredità in questo.
E quali sono i sentimenti, quale è la relazione della Sardegna nei
confronti del Continente? Anche di quello si parla nel libro, quasi che la Sardegna fosse un figlio
dell’anima dell’Italia…
Nella prima guerra mondiale, in
proporzione ci sono stati più morti sardi che “italiani”, tant’è vero che il
Partito Sardo d’Azione di Lussu aveva la striscia nera di lutto sulla bandiera.
Siamo diventati italiani in quel momento- la prima guerra mondiale ha generato
la retorica della Brigata Sarda. E però c’è una contraddizione- pensare che
un’identità si possa fondare sul numero delle morti. Nel mio romanzo invito a
riflettere sulla nostra italianità come sardi, un’italianità che nasce malata
da un lutto. La nonna mi raccontava che siamo diventati italiani sul Carso e io
le dicevo, ‘ma l’Italia è lontana’ e lei mi diceva ‘con tutti quei morti mica
possiamo non essere italiani’. E’ l’unico momento di debolezza nel ragionamento
di Bonaria. La relazione con il Continente è ambivalente: c’è un complesso
radicato da un percorso storico, della paura di non farcela da soli; dall’altra
c’è un percorso di riconoscimento in determinati simboli italiani, per esempio
la forzatura subita sulla lingua. Noi sardi siamo schizofrenici, abbiamo, per
così dire, una depressione bipolare. Da una parte pensiamo di non valere
niente, al massimo miriamo all’autonomia e non all’indipendenza.. Dall’altra
parte, siamo così diversi- come possiamo essere italiani?
Mi perdoni, ma ho trovato scontata la storia di Maria a Torino: ci
doveva essere un allontanamento e un’interruzione, e forse era anche la cosa
più probabile che succedesse…E tuttavia è la parte meno interessante del libro…
Non c’era molta scelta…
a quell’epoca dalla Sardegna le ragazze partivano per fare le serve, come le
filippine oggi. Per me era importante contrapporre due mondi: come sono forti
le relazioni della comunità di appartenenza di Maria, tanto sono deboli quelle
della comunità dove va a lavorare.
l'intervista e la precedente recensione sono state pubblicate su www.stradanove.net
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