venerdì 5 gennaio 2018

Michela Murgia, "L'accabadora" Intervista 2009




Ero ansiosa di incontrare Michela Murgia, di parlare con lei del personaggio dell’accabadora che mi pareva l’immagine della misericordia, una consolazione per il timore di sofferenze senza fine. E, quando mi si è avvicinata, nella folla dello stand Einaudi alla fiera del libro di Torino, l’ho riconosciuta senza averla mai vista- piccola, con le belle tinte more dei sardi, gli occhi scuri che non sono prerogativa esclusiva dell’isola ma che, laggiù, assumono una profondità di mistero. E ho parlato con lei del suo libro.

Iniziamo dalle due figure fondamentali: esiste veramente un personaggio con il ruolo dell’accabadora?
       Esiste nella narrazione. Si racconta che sia esistita una figura del genere e quindi per me è come se fosse esistita: la narrazione genera mondi dove la gente va ad abitare. C’è una scuola molto severa di antropologi sulla figura dell’accabadora e non tutti sono concordi. Cioè sono tutti d’accordo che ci siano stati episodi di accabadura ma non che sia esistita una figura a cui la comunità deve questo ruolo. In sintesi: accabadura forse; accabadora no. Esistono anche cinque versioni su ‘come’ l’accabadora eseguiva l’atto: con un colpo di martello sul petto o sulla noce di capocollo; con uno spillone d’osso nell’orecchio; con le mani per soffocamento; con un giogo di legno posto dietro il collo- e questa è la narrazione più diffusa. La studiosa Dolores Turchi ha fatto una ricerca sulla simbologia del giogo di legno, che è un simbolo sacrale: le persone faticano a morire perché hanno compiuto azioni sacrileghe, come l’aver bruciato un giogo o spostato una pietra di confine. Sono gesti che determinavano la sopravvivenza- portare via uno strumento di lavoro o rubare della terra. Comunque, in definitiva, se l’accabadora è esistita, è stato in tempi molto lontani.


Ma un’accabadora è pagata per quello che fa? Tutti sanno di lei?
     No, non era pagata. Veniva affidato a lei l’incarico per non suscitare sensi di colpa, perché i parenti sfuggissero a sospetti di un secondo fine. Non veniva pagata, a volte le veniva dato qualcosa da mangiare. Perché lo faceva, allora? Agiva sul mandato della comunità in un contesto in cui i mandati comunitari soverchiavano la volontà del singolo. Spesso l’accabadora era anche la levatrice del paese- ‘sa femina pratica’, era la donna esperta, colei che sa che cosa fare quando è necessario farlo. Perciò era chiamata in diversi momenti della vita: la nascita e la morte.

Era una forma primordiale di eutanasia?
     Ecco no, era diversa, bisogna vederla in un’economia di sussistenza, magari la sua azione era richiesta per sollevare una famiglia dal peso. Perché, in quell’economia, una persona in quelle gravissime condizioni portava via braccia necessarie ai lavori. Non c’è in gioco la dolce morte ma la sopravvivenza dei sani. Nel caso della sofferenza della persona che lo chiedeva, lì l’accabadura era legittimata da un contesto sociale. L’accabadura è un atto sociale, l’accabadora è una donna che agisce per mandato della comunità in una situazione riconosciuta di necessità da tutti. Ricordiamoci che il cristianesimo non era ancora penetrato nella società. L’eutanasia come la viviamo oggi è la sublimazione di una solitudine del singolo che soffre e della famiglia che è l’unica che si fa carico di questo dolore.

E il fillus de anima- parola bellissima? Mi domandavo se il romanzo sia ambientato negli anni ‘50 perché ai nostri tempi ci sarebbero seri problemi legali sia per l’accabadora sia per la seconda madre di un fillus de anima…
      Io sono una fill’e anima. E’ una cosa molto comune…E’ un patto sulla parola in un contesto in cui la parola vale come atto burocratico. E’ l’unico elemento autobiografico nel libro. La maggior parte dei casi di fill’e anima avviene per affetto da parte di entrambe le madri e il bambino viene coinvolto, gli si chiede se è d’accordo. Una madre dà via il suo bambino perché in realtà non lo perde in questa maniera, e il bambino acquista un’altra madre. In genere si instaura una bella relazione in cui si passa la patria potestà alla nuova famiglia. In questo momento ci sono almeno dieci figli dell’anima a Cabras, in provincia di Oristani, dove vivo io, e non ho conoscenza di rapporti interrotti.

E come vive il bambino questa separazione?
     E’ una situazione che va letta nel contesto in cui avviene: al mio paese i bambini giocavano in strada e qualunque mamma scendesse in strada sgridava chi doveva essere sgridato. E’ un concetto esteso di corresponsabilità in un contesto in cui la privacy proprio non esiste. Non c’è una cosa che riguardi solo me. E il fill’e anima è la risposta relazionare che quella comunità dà ai bisogni delle famiglie: farsi assistere nella vecchiaia; la controparte per il bambino è la migliore qualità della vita. Cambia anche la prospettiva del bambino, perché si diventa figlio unico. Conoscevo però una famiglia che già aveva cinque figli suoi e ha preso un sesto fill’e anima. E dopo lo ha anche adottato.

I fillus de anima vengono presi quando sono piccoli?
    Di solito sì, io però avevo già diciassette anni. Ma si ha qualche segnale prima: magari verso i quattordici anni ti chiamano per aiutare in qualche lavoretto e inizia così la relazione con quella nuova famiglia. Quando arriva la proposta la relazione è già molto stretta, e tutte le parti entrano nella decisione finale. A me fu chiesto, ad esempio, se ero d’accordo. Nelle comunità tutte le persone anziane vengono chiamate “zia” o “zio”: il rapporto comunitario è così stretto che viene qualificato come un ruolo parentale.


Come mai sono quasi del tutto assenti gli uomini dal suo libro?
      Gli uomini sono assenti: è vero. Quelle decisioni le prendevano le donne. In quel contesto l’uomo non ha il ruolo di tessere la comunità. E’ vero che ho scritto un romanzo di uomini morti anche quando sono vivi: io sono cresciuta in un contesto di donne forti. In Sardegna il matriarcato è una cosa seria perché comunque il ruolo di dar coesione alla comunità è delle donne e non degli uomini, nel contesto in cui scrivo.

 La Sardegna degli anni ‘50 ci sembra quasi un paese ottocentesco. Ci parli della Sardegna di ieri e della Sardegna di oggi, della Sardegna delle città e della Sardegna dell’interno.
  Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 la Sardegna ha subito una trasformazione enorme: la differenza tra me e mia madre non è di 45 anni ma di 200 anni: le trasformazioni sono state così rapide da fare un salto temporale come mai si è verificato prima. Io cerco di rendere questa idea nel diverso modo di recepire l’accabadura. La vecchia la prende come normale, per la bambina è inaccettabile. E’ un conflitto di valori ancora in atto, in maniera meno radicale perché c’è stato il tempo a stemperarla. Per me questa non è una Sardegna arcaica, sono cose che ho vissuto e che in me si riconciliano- e io sono una donna moderna. Per me narrare è un atto di ricomposizione, per riunire trame diverse di passato e presente. C’è poi da tenere in conto anche la tradizione orale così viva nella Sardegna- io ricordo la nonna che raccontava, c’è una forte eredità in questo.


E quali sono i sentimenti, quale è la relazione della Sardegna nei confronti del Continente? Anche di quello si parla nel libro, quasi che la Sardegna fosse un figlio dell’anima dell’Italia…
     Nella prima guerra mondiale, in proporzione ci sono stati più morti sardi che “italiani”, tant’è vero che il Partito Sardo d’Azione di Lussu aveva la striscia nera di lutto sulla bandiera. Siamo diventati italiani in quel momento- la prima guerra mondiale ha generato la retorica della Brigata Sarda. E però c’è una contraddizione- pensare che un’identità si possa fondare sul numero delle morti. Nel mio romanzo invito a riflettere sulla nostra italianità come sardi, un’italianità che nasce malata da un lutto. La nonna mi raccontava che siamo diventati italiani sul Carso e io le dicevo, ‘ma l’Italia è lontana’ e lei mi diceva ‘con tutti quei morti mica possiamo non essere italiani’. E’ l’unico momento di debolezza nel ragionamento di Bonaria. La relazione con il Continente è ambivalente: c’è un complesso radicato da un percorso storico, della paura di non farcela da soli; dall’altra c’è un percorso di riconoscimento in determinati simboli italiani, per esempio la forzatura subita sulla lingua. Noi sardi siamo schizofrenici, abbiamo, per così dire, una depressione bipolare. Da una parte pensiamo di non valere niente, al massimo miriamo all’autonomia e non all’indipendenza.. Dall’altra parte, siamo così diversi- come possiamo essere italiani?

Mi perdoni, ma ho trovato scontata la storia di Maria a Torino: ci doveva essere un allontanamento e un’interruzione, e forse era anche la cosa più probabile che succedesse…E tuttavia è la parte meno interessante del libro…

      Non c’era molta scelta… a quell’epoca dalla Sardegna le ragazze partivano per fare le serve, come le filippine oggi. Per me era importante contrapporre due mondi: come sono forti le relazioni della comunità di appartenenza di Maria, tanto sono deboli quelle della comunità dove va a lavorare.

l'intervista e la precedente recensione sono state pubblicate su www.stradanove.net


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