Casa Nostra. Qui Italia
premio Campiello
il libro ritrovato
Michela Murgia, “Accabadora”
Ed. Einaudi, pagg. 164, Euro
18,00
Sembra quasi una parola magica,
“Accabadora”, che è il titolo del romanzo di Michela Murgia. Suona un poco come
l’Abracadabra che spalanca porte nella roccia, e forse è proprio così. Perché
‘accabadora’ deriva dallo spagnolo acabar,
finire, e così viene chiamata- nel
villaggio sardo- la vecchia che apre le porte di qualunque cosa sia l’aldilà,
aiutando in maniera pietosa coloro la cui vita non si può più definire tale,
perché varchino quella soglia con una spinta, finendo di soffrire.
Che l’anziana Bonaria Urrai vestita di
nero sia la Parca
che taglia il filo lo intuiamo verso la metà del libro di Michela Murgia,
quando qualcuno viene a chiamarla di notte e il giorno dopo si diffonde la voce
che un vecchio è morto. Perché il romanzo inizia con un’altra parola sarda- e
ci pare bellissima- ‘fillus de anima’. “E’ così che vengono chiamati i bambini
generati due volte”, e sono i figli di una madre povera che vengono, per così dire, “regalati” ad
un’altra donna che, invece, di figli non ne può avere. Diventando da figli di
sangue a figli dell’anima.
Maria Listru aveva due madri- era
arrivata ultima, dopo altre tre bambine, quando suo padre era già morto, ed
aveva sei anni quando Tzia Bonaria l’aveva vista giocare con la terra e, dopo
un breve parlare con Anna Listru, se l’era portata via con sé. Una doppia opera
buona, perché Bonaria Urrai avrebbe anche dato dei soldi alla madre di Maria,
oltre a toglierle una bocca da sfamare, e avrebbe assicurato un futuro migliore
alla bambina, senza peraltro che perdesse i contatti con la sua vera madre.
Il romanzo “Accabadora” è costruito nella
tensione tra questi due poli, di nascita e di morte. Perché occorre un aiuto
sia per nascere sia per morire. Perché, a ben vedere, c’è un debito di
gratitudine sia da parte di chi diventa un ‘fillus de anima’ sia da parte di
quelli che ricorrono all’accabadora perché non ne possono più di esistere in
una ‘non’ vita. E ci può essere uno scambio tra questi due debiti? E dove si
pone la linea sottilissima tra un gesto di misericordia e un delitto? Maria
Listru non sa nulla, pensa che la madre adottiva sia una sarta; Tzia Bonaria
mette ben in chiaro che sapere dove vada- ogni tanto, la notte- non è cosa che
la riguardi. Finché, nella notte che precede la festa dei morti, quando le
anime dei trapassati tornano a trovare i viventi, muore il fratello di un amico
di Maria, un giovane che ha perso una gamba per una storia di liti tra vicini di
campi. La sua esistenza è stata distrutta, eppure lui sta bene. E l’amico di
Maria ha visto un’ombra nera curva con un cuscino sul letto del fratello.
scena dal film |
A questo punto “Accabadora”
diventa un doloroso romanzo di formazione (ma quale Bildungsroman non è doloroso?), perché per Maria la madre adottiva
è un’assassina. Non serve che Tzia Bonaria le dica che, proprio come si ha
bisogno di aiuto per venire al mondo, serve un aiuto anche per andarsene da
questo mondo. Che non si deve mai dire: ‘di quest’acqua io non ne bevo’. Che
lei è stata l’ultima madre che molti hanno visto.
Serve uno stacco, per arrivare a bere
dell’acqua che non si vorrebbe bere. E nel romanzo c’è una sorta di interludio,
che è la parte più debole del libro: Maria parte, va sul continente, a fare la
bambinaia in una Torino fredda che verdeggia nel Valentino. Uno dei bambini non
è poi tanto piccolo, ha già quattordici anni quando Maria arriva. Ne avrà
sedici quando Maria viene licenziata- facile indovinare perché. Ma intanto
tornerebbe ugualmente in Sardegna: Tzia Bonaria ha avuto un ictus e Maria la
assisterà. Fino alla morte.
“Accabadora” è un bel libro. Perché ci
parla di qualcosa di cui si è molto discusso di recente riportandoci indietro
nel tempo- a metà degli anni ‘50- e in un paese, la Sardegna , dove la tecnologia
è ancora ben lontana dall’arrivare. Nessun respiratore artificiale, nessuna
alimentazione via flebo, nessuna terapia del dolore. Una vita più elementare in
cui neppure si parla di ‘eutanasia’. Eppure il problema è quello, il quesito è
lo stesso di oggi: si ha il diritto di porre termine all’esistenza di qualcuno?
Quale è il momento limite che distingue il delitto dall’atto di amore? E il
romanzo corre veloce, con una scrittura nitida, pieno di luci e di ombre. Di
quell’ambiguità del sentire che è presente sia nello scegliere un figlio
dell’anima sia nello sciogliere i fili della vita.
la recensione e la seguente intervista sono state pubblicate su www.stradanove.net
Nessun commento:
Posta un commento