Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
il libro ritrovato
Drago Jančar, “Aurora boreale”
Ed. Bompiani, trad. Darja
Batocchi e Enrico Lenaz, pagg. 277, Euro 16,50
Il 25 gennaio 1938 una straordinaria aurora
boreale si poté osservare nei cieli dell’Europa centrale, un fenomeno collegato
ad un intensificarsi dell’attività delle macchie solari che si manifesta con un
bagliore vivissimo e rosseggiante da incendio di immani proporzioni. Come se i
confini del mondo stessero prendendo fuoco, infiammando tutta l’atmosfera.
La vicenda del
romanzo “Aurora Boreale” dello scrittore sloveno Drago Jančar, che ci arriva
finalmente in traduzione dopo più di vent’anni dalla sua pubblicazione, inizia
la notte del primo dell’anno del 1938 e si srotola con un che di fatalistico
verso la sera del 25 gennaio, per poi precipitare verso la drammatica
conclusione. Colorata di rosso, come l’aurora boreale. Rosso che è il colore
della passione ma anche del sangue e delle fiamme dell’inferno che possono
avere un fascino sinistro di attrattiva- proprio come l’inquietante aurora
boreale. Josef Erdman scende dal treno a Maribor, cittadina al confine tra
Slovenia e Austria, la notte di San Silvestro. Deve incontrarsi lì con il
collega Jaroslav, che arriva da Trieste. Ma Jaroslav non arriva mai. Anzi,
potrebbe essere che questo Jaroslav non esista neppure. E allora l’attesa di
Erdman diventa una sorta di attesa di Godot, sfiorata dall’assurdo, una
ricerca- di che cosa? Dell’amore, impersonato dalla sfuggente Margherita o
Marjetica che è la moglie dell’ingegner Samsa? Della religione o della
spiritualità, al seguito di quel Fedjatin che ha incontrato appena sceso dal
treno, urlante “Cristo è risorto!”? della comprensione del mondo intero, sulle
tracce del globo blu che ricorda di aver visto da bambino in una chiesa,
strillando perché lo voleva?
Ad ogni modo l’attesa diventa un lento scivolare di Erdman
verso le fiamme dell’inferno, un graduale disgregarsi della sua personalità, un
perdere la presa su se stesso, un lento deterioramento fisico oltre che
mentale. Come è potuto succedere che l’uomo ammirato per il portamento dignitoso,
la piega dei pantaloni sempre stirata e il viso sbarbato, sia diventato un
pezzente maleodorante e beone? Che il commesso viaggiatore che si intrattiene
in conversari con gente qualificata e del suo ceto finisca per aggregarsi al
disoccupato, perdigiorno e ubriacone Glavina e a Fedjatin, santone del tipo
Rasputin? Che l’amante delicato dell’inizio porti Marjetica nella fatiscente
capanna di Glavina, nel mezzo del nulla, nella zona di baracche dal nome
esotico di “Abissinia”?
Maribor |
E’ come se il
romanzo di Drago Jančar riassumesse in sé temi, motivi, personaggi e stili del
romanzo europeo- l’attesa senza fine di Beckett ma anche il ripetuto
presentarsi a sportelli senza risposta de “Il processo” di Kafka, il
Dostojevsky di “Delitto e Castigo” e quello de “L’idiota”, la parodia delle
teorie razziali che ricorda la satira antisovietica di Bulgacov, le maschere di
Carnevale che impazzano come in una scena di Schnitzler. Persino la scelta dei
nomi è indicativa in questo senso: dal Fedjatin che si avvicina molto a Fedor,
a Josef (come Josef K. de “Il castello” di Kafka), a Samsa (dopo tutto non si
trasforma anche Erdman come l’impiegato delle “Metamorfosi”?), all’amata
Marjeta che assomiglia alla Margherita de “Il maestro e Margherita”. E, come il
Diavolo Voland che ha un ruolo così importante nel romanzo di Bulgacov, pure
qui il Male sta avanzando. Perché è l’anno prima dell’inizio della seconda
guerra mondiale e il male- scrive Drago Jančar- è una crepa in un mondo che
altrimenti sarebbe perfetto: il 1938 è l’anno in cui la crepa inizia ad
allargarsi.
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