Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
INTERVISTA A YEHOSHUA
KENAZ, autore di “Voci di muto amore”
Quest’anno il paese ospite al Festival della
Letteratura di Chiasso era Israele e noi abbiamo intervistato Yehoshua Kenaz,
considerato uno dei più grandi scrittori israeliani, durante le conferenze-dibattito
che si sono svolte all’Università Statale di Milano. Oltre ad essere scrittore,
Kenaz è anche un ottimo traduttore dal francese- è cresciuto in Francia e ci
dice che, se Israele è la sua patria, la Francia è il suo mondo. A lui gli israeliani
devono la traduzione di grandi autori del passato, Balzac, Stendhal, Mauriac, e
di autori moderni come Simenon. Di Kenaz la casa editrice Giuntina ha già
pubblicato “La grande donna dei sogni”.
Il titolo originale
del libro “Voci di muto amore” è molto diverso da quello italiano. In ebraico è
“La via verso i gatti”: come mai questo titolo?
Il titolo originale è
nato in maniera un po’ strana, su suggerimento del mio editor. C’è un cortile,
fuori del condominio in cui vive la signora Moskovitch, e c’è un vialetto che
conduce a quest’area dove ci sono i cassonetti dell’immondizia e naturalmente
ci sono i gatti che amano frugare nei rifiuti e non sono certo i bei gattoni da
appartamento. Ci è sembrato un titolo che ben esprimesse il tipo di vita dei personaggi.
Dirò di più: in Israele, dopo la pubblicazione del libro, “la via dei gatti” è
diventato un modo di dire per qualcuno che sta poco bene, a cui si prospetta
una brutta fine, come dire che è destinato all’immondizia.
Sia ne “La grande donna dei sogni” sia in questo romanzo lei sceglie il
microcosmo, un condominio nel primo, una casa di ricovero in questo: perché
preferisce la polifonia di molte voci?
La domanda contiene già
la risposta: mi piace la polifonia. Nella maggior parte dei miei romanzi c’è
questa polifonia, mi pare che dia un certo respiro alla storia. Per me è molto
importante: mi permette di essere obiettivo, la storia è per così dire
raccontata da diversi punti di vista e a volte dà l’impressione di una
stereofonia, come se provenissero delle voci da tutte le parti. Si sposta il
centro focale della vicenda, con molte voci.
Un tema ricorrente nei due romanzi è la solitudine di persone che vivono
al margine. Si trattava dell’ungherese e di Rosa la cieca ne “La grande donna
dei sogni”, qui sono tutti i personaggi che vivono soli: che cosa la attira
nell’esplorare questa dimensione della marginalità, della solitudine?
Forse il fatto che
quando le persone sono sole, si trovano in una condizione esistenziale di base,
ed è questo che mi interessa. Una persona risulta meglio delineata in questo
piccolo mondo chiuso e mi interessava vedere come valutavano la loro
situazione. Quando ci pensavo, mi sembrava uno spazio in cui si aggirassero dei
fantasmi, che a volte si ignorano e a volte si salutano. In entrambi i libri
c’è un’atmosfera da incubo, ogni personaggio è il prolungamento del delirio
dell’altro, e ognuno resta profondamente solo. Se c’è in tutto una leggera
esagerazione, è perché mi piace esagerare per rendere il quadro più forte. E
poi cerco di usare un umorismo leggero per dare sollievo alla storia.
In questo romanzo il tema dominante è la vecchiaia, le limitazioni
fisiche imposte dalla vecchiaia, e la necessità di fronteggiare la morte: è una
specie di esame a cui viene sottoposto anche il lettore, per farci domandare
come reagiremmo noi a questa prova?
Non saprei come
generalizzare questo tema. La vecchiaia per me è una metafora per l’esistenza,
per una visione non ottimistica della vita, che è un viaggio verso l’altra parte.
Quello che succede nella vecchiaia è che i problemi si ingrandiscono, diventano
più drammatici. Penso che il mondo in cui questi anziani sono chiusi è la
restrizione mentale in cui viviamo. Ma naturalmente il libro si può leggere a
vari livelli.
La signora Moskovitch usa spesso la parola “inferno” per parlare della
casa di cura e la paragona a Treblinka. Eppure non abbiamo indicazioni di
maltrattamento dei pazienti: l’inferno è la vecchiaia stessa? L’inferno è
dentro di noi, è il suo egoismo che è l’inferno?
L’inferno è il suo
egoismo, il suo narcisismo: a lei interessa solo se stessa, lei sa solo che è
là e che tutti devono servirla. Il paradosso è che volevo scrivere di una donna
egocentrica ed egoista e poi ho scoperto che senza la compassione non puoi
scrivere un romanzo. Senza la compassione le cose non riescono ad essere umane
e convincenti. Prendiamo Madame Bovary: Flaubert- non voglio paragonarmi a
Flaubert, ma lui è un modello per me- disprezza Madame Bovary, ma è un grande
scrittore e nel romanzo affiora la sua compassione per lei. La signora
Moskovitch è un parassita, è orrenda e, oltre tutto, è basata su una persona
vera. Quando volevo scrivere il libro, ho fatto un lavoro di ricerca e la casa
di cura è descritta meticolosamente su una vera casa di cura, perché volevo
ancorare la mia immaginazione su un terreno sicuro. Dicevo, è una donna orrenda
e poi, paradossalmente, provi compassione per lei. Quando cerchi di guardare
dentro un personaggio, per quanto orrendo, ti trovi a difenderlo, e la tua
intenzione di descrivere una donna stupida viene meno. Mi piace l’ambivalenza,
mi piace la contraddizione interna.
Viene ripetuto spesso, quando i personaggi parlano, che stanno parlando
nella “loro” lingua, opposta a quella comune, l’ebraico: non si è mai
sottolineato abbastanza che l’esilio forzato degli ebrei ha significato per
loro l’abbandono della lingua, forse ancora più doloroso dell’abbandono del
paese in cui si è vissuti e che si è considerato come proprio.
Nell’originale del libro,
questa è una cosa molto importante: quando ognuno dei pazienti parla, un
lettore israeliano sa riconoscere quale sia la sua provenienza. Era una cosa
difficile da rendere nella traduzione, ma so che è stato fatto un ottimo
lavoro. Così la signora Moskovitch è rumena, anche Allegra è rumena, ma di
origine sefardita e non ashkenazita, Matilda Franco è turca e il suo linguaggio
risente della lingua ladina. Sono tutti personaggi che non hanno più
un’appartenenza. Da qui il contrasto con il gruppo di persone riunite nella
saletta da gioco, che parlano un ebraico perfetto perché appartengono al paese,
sono nati là. Il tema della lingua sottolinea la mancanza di radici. Per me è
una metafora della solitudine esistenziale.
Parlando sempre della lingua, c’è un’altra cosa che non è
sufficientemente sottolineata: si sente spesso la frase che gli ebrei hanno
fatto fiorire il deserto, non si dice che hanno fatto fiorire una lingua che
era morta, che esisteva solo nelle pagine della Bibbia. Come sono riusciti gli
israeliani in questo compito immane, a dare un’unità linguistica al paese? Ci
sarebbe molto da imparare per noi, con le ondate di immigrazione che abbiamo.
E’ stato veramente un miracolo, come si
sia riusciti a ridare vita ad una lingua, l’ebraico, che era morta. Certo, i
rabbini lo conoscevano, si scrivevano in ebraico. Nel secolo XIX, all’inizio
del sionismo, ci furono persone che iniziarono ad imparare l’ebraico come
lingua laica: era come un rinascimento, far rivivere una lingua per una nuova
nazione. In Palestina dapprima ci fu una piccola comunità di gente che parlava
l’ebraico, poi si allargò e, dopo la seconda guerra mondiale, l’ebraico era già
la lingua forte del paese. E’ stato certamente uno sforzo maestoso ma, anche
per quello che riguarda l’ebraico come lingua letteraria, c’erano già degli
esempi di grande valore nell’Europa dell’Est, Bialik, ad esempio, scriveva le
sue poesie in ebraico. In ogni modo ci sono voluti una ventina d’anni per
raggiungere un diffuso buon grado di conoscenza della lingua in Israele.
C’è un personaggio luminoso, quello di Allegra: è per questo che le ha
dato questo nome? Ci rimane impresso per tutto il libro, è lei l’altro
personaggio principale del libro, in opposizione alla signora Moskovitch?
Sì, anche se a volte do
dei nomi ai personaggi con un significato opposto: Allegra non è allegra, lei
accetta tutto, soffre, è la martire della storia, in lei c’è qualcosa di santo.
E sì, è il personaggio in opposizione a Jolanda Moskovitch, al suo egoismo, al
suo sguardo costantemente concentrato su se stessa.
l'intervista, così come la recensione, è stata pubblicata su ww.alice.it