Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Yehoshua Kenaz, “Voci di muto amore”
Ed. Giuntina, trad. Alessandro
Guetta, pagg. 300, Euro 15
Titolo originale: Baderekh ‘el ha-chatulim
Sono stata molto cattiva. Non
potevo invitare i miei amici. Non potevo star da sola con qualcuno. Non avevo
un posto per me. Gli facevo sentire che stavano distruggendo la mia vita.
C’erano delle notti che non riuscivo a prendere sonno per la rabbia e per
l’odio.
C’è una scena significativa, verso la metà del romanzo “Voci di muto
amore” dello scrittore israeliano Yehoshua Kenaz. E’ appena avvenuto un grave
episodio di violenza nei confronti di un infermiere arabo nella casa di
ricovero per anziani in cui è ambientato il romanzo, c’è silenzio, si sentono
solo le voci che provengono dal televisore, la luce del crepuscolo entra nella
stanza, cancellando i lineamenti dei volti, bloccando ogni movimento, “finché
quel luogo non fu più una camera d’ospedale, ma una breve sosta nel viaggio
senza fine verso il grande oblio.” Ecco, i colori sfumati del lento finire del
giorno, il tempo che avanza a passettini, troppo lento per vivere, troppo
veloce per morire, la sosta per guardare indietro perché davanti non c’è più
niente: è questa l’atmosfera che avviluppa i personaggi di questo libro in cui
il microcosmo è una casa di ricovero dove si vive di ricordi, piacevoli e
spiacevoli, si portano avanti i piccoli litigi, i battibecchi, le invidie, le
gelosie e meschinità del mondo che gli ospiti hanno lasciato e in cui
vorrebbero- ma non tutti- tornare a vivere.
Perché si pensa che la propria
casa sia meglio che una nuda stanza di ospedale, che sia di maggiore conforto
morire circondati dai ricordi di una vita e con i visi amati negli occhi- ma, e
se la casa è un bugigattolo? E se non abbiamo proprio nessuno, né parenti né
amici? Allora l’unica cosa che Allegra desidera è che la lascino morire lì, in
quel ricovero, l’unica cosa di cui ha paura è la solitudine. E’ un bel
personaggio, quello di Allegra, il caso clinico più grave degli ospiti della
casa di cura eppure così serena, così “allegra”, così attiva, almeno finché
può, finché le gambe le reggono. E non importa se è raggirata, se firma le
carte in cui lascia quel poco che possiede ad Adela- in fin dei conti Adela si
sta prendendo cura di lei, con quei massaggi che forse non servono a niente, e
ad Allegra non interessa altro.
Ha la penna leggera, Yehoshua Kenaz, nel
tratteggiare i suoi personaggi, quasi come quella del pittore a cui amputeranno
la gamba, impenitente seduttore che flirta con Jolanda, la signora Moskovitch
che è il personaggio dominante del libro.
Con un tocco di squisitezza gentile Kenaz non ci dice l’età della signora Moskovitch (l’unica a cui è riservato, ironicamente, il “signora”)- lei continua a tingersi i capelli, a truccarsi, a vestirsi in maniera appariscente, pateticamente convinta di essere diversa dalle altre, di poter interessare qualcuno. Anche se lo specchio le dice altrimenti, come il ritratto impietoso che le fa il pittore per cui lei si fa “bella”. Kenaz vince il grigiore del luogo con un umorismo sottilmente triste, la capacità di sorridere delle debolezze umane, la compassione affettuosa di chi sa che tutti dobbiamo prepararci a quello che ci aspetta. Molte delle ospiti del ricovero provengono da “laggiù”, un angolo d’Europa non precisato, parlano tra di loro nella “loro” lingua tra le proteste di chi si sente escluso, e comunque nessuno dei personaggi parla un ebraico corretto (interessante la soluzione che l’ottimo traduttore ha adottato per rendere gli errori linguistici), e sono dettagli che ci spiegano, senza nulla dire, la sensazione di estraniamento, di vuoto nella vita, di solitudine di tutti loro.
Con un tocco di squisitezza gentile Kenaz non ci dice l’età della signora Moskovitch (l’unica a cui è riservato, ironicamente, il “signora”)- lei continua a tingersi i capelli, a truccarsi, a vestirsi in maniera appariscente, pateticamente convinta di essere diversa dalle altre, di poter interessare qualcuno. Anche se lo specchio le dice altrimenti, come il ritratto impietoso che le fa il pittore per cui lei si fa “bella”. Kenaz vince il grigiore del luogo con un umorismo sottilmente triste, la capacità di sorridere delle debolezze umane, la compassione affettuosa di chi sa che tutti dobbiamo prepararci a quello che ci aspetta. Molte delle ospiti del ricovero provengono da “laggiù”, un angolo d’Europa non precisato, parlano tra di loro nella “loro” lingua tra le proteste di chi si sente escluso, e comunque nessuno dei personaggi parla un ebraico corretto (interessante la soluzione che l’ottimo traduttore ha adottato per rendere gli errori linguistici), e sono dettagli che ci spiegano, senza nulla dire, la sensazione di estraniamento, di vuoto nella vita, di solitudine di tutti loro.
la recensione è stata pubblicata su www.alice.it
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