Casa Nostra. Qui Italia
il libro ritrovato
Simona Vinci, “Brother
and sister”
Ed. Einaudi, pagg.111, Euro 8,5
Ancora il mondo dell’infanzia, o
dell’adolescenza sulla soglia dell’infanzia, nel nuovo libro di Simona Vinci,
un racconto lungo che sarebbe dovuto essere un dramma per la radio. E del
dramma “Brother and sister” mantiene la struttura scarna, lo scenario
essenziale, il dialogo, l’unità di tempo e di luogo. Tutto si svolge tra
l’interno di una casa e un bosco, in una notte, l’ultima che i tre fratelli, la
diciassettenne Cate, il quattordicenne Matt e il piccolo Billo passeranno
insieme. E’ una notte di luna piena, un paese sugli Apennini, Bologna in
lontananza. Zoom sull’interno, una casa con poche cose, la televisione, una
cassettiera, un grembiule che pende da un gancio. Tutto lascia intendere
un’assenza- i fratelli accennano alla mamma, e poi cade il silenzio; se Billo
piange, “adesso” tocca a Cate farlo smettere. L’intero quadro si configura come
una delle favole che si raccontano ai bambini, in cui c’è sempre una mamma che
muore, solo che nella realtà del mondo moderno la matrigna è sostituita
dall’assistente sociale, il pericolo è quello dell’essere internati in un
Istituto e finire con l’essere separati. E’ la disgregazione del nucleo
famigliare, lo strappo, la solitudine. E’ per scongiurare la paura di quello
che li aspetta che Matt chiede alla sorella di raccontare una fiaba e la fiaba
è il calco della loro storia, una favola che prende dalla tradizione gli
elementi della fuga nel bosco, del fratellino che viene trasformato in un
capriolo, del re che sposa la fanciulla.
La favola di Cate si interrompe di
continuo per fare posto alla realtà della storia che loro stanno vivendo-
escono fuori i ricordi, la nascita di Billo, la morte del padre, la depressione
della madre. E affiorano anche altri
pensieri e sentimenti più torbidi, quelli che balenano nella mente senza che si
riescano a soffocare, che si esprimono con parole spezzate perché fanno paura-
l’attrazione, inevitabile ma sentita come colpevole, tra fratello e sorella, la
domanda “si può fare qualcosa per trattenere le persone?”, l’accorata
constatazione “non ci voleva bene”. Ed è della mamma che si parla, del modo
come se n’è andata, e poi c’è quella domanda, “gli hai detto che siamo stati
noi?”, che si spalanca su un buio di possibilità.Come nella favola di Grimm, anche qui il bosco ha una valenza duplice: è una possibilità di fuga, un sollievo temporaneo dall’atmosfera chiusa dei ricordi, ma è pur sempre buio, con cespugli che graffiano, con rumori che non si riescono ad identificare. E la sortita dei tre fratelli nel bosco finirà con una corsa precipitosa per rinchiudersi di nuovo nella sicurezza della casa- sono troppo giovani per affrontare il mondo da soli. Una telefonata annuncia l’arrivo di un assistente sociale (a lui il ruolo di salvatore come quello del re?) e dal bosco esce, per unirsi a loro, non una bestia feroce ma un piccolo compagno down di Billo: a lui la corona argentata di cartone sulla testa, il re della solitudine per ricordarci che non abbiamo il monopolio dell’infelicità.
la recensione è stata pubblicata su www.lettera.it
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