Voci da mondi diversi. Area germanica
il libro ritrovato
Jenny Erpenbeck, “Di passaggio”
Ed. Zandonai, trad. Ada Vigliani,
pagg. 157, Euro 13,00
Ogni lingua ha il suo fascino.
“Heimsuchung” è il titolo originale del romanzo di Jenny Erpenbeck e capirete
presto perché in italiano abbia dovuto essere reso altrimenti, con “Di passaggio”.
Perché il tedesco tagliente, duro come
una frustata, che sentiamo nei film di guerra può essere anche
straordinariamente e meravigliosamente complesso nella sua semplicità. Qui c’è
una sola parola che, in quanto sostantivo, significa ‘afflizione’: le vicende
che leggiamo nel libro sono tutte colme di questo sentimento, hanno tutte un
risvolto doloroso- come la vita. Ma il verbo da cui heimsuchung deriva arricchisce il significato- vuol dire
infiltrarsi, penetrare in una casa, causando danni, provocando dolore.
Afflizione.
Una casa è la protagonista del romanzo.
Immobile a sorvegliare il lago con il pontile e il va e vieni di coloro che la
abitano, o la occupano. Fa pensare alle case dei grandi romanzi inglesi, Howards End di Forster, la magione di
“Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro. In quest’ultimo c’era un
maggiordomo che invecchiava con la sua fedeltà alla casa, qui c’è un
giardiniere- unico personaggio costante che appare nei capitoli di separazione
tra quelli in cui appaiono gli altri diversi personaggi nell’arco degli anni.
Quasi fosse lui stesso un prolungamento della casa. Oppure, quasi fosse l’anima
viva della casa: là mattoni e pietre, qui la terra che brulica di vita
rispondendo alle sue cure. E quando arrivano i soldati a cavallo dell’Armata
Rossa facendo scempio del giardino, lui si preoccupa solo di quella rovina.
D’altra parte è solo la natura che può rinascere ogni anno.
La casa si trova nella Germania dell’Est, in una tenuta il cui primo
proprietario aveva quattro figlie. La minore, erede della casa, si era
suicidata nel lago. E’ questo il primo dramma all’ombra della casa che passerà
di proprietario in proprietario, a volte legittimamente, a volte tramite espropriazione. La famiglia di
Hermine e Arthur, ad esempio, e dei loro figli Ludwig e Elisabeth. Sono ebrei,
commercianti di tessuti. Indoviniamo la loro storia a poco a poco- e non tutta
nello stesso capitolo. Perché, nel libro di Jenny Erpenbeck, i personaggi
escono da un capitolo ed entrano in un altro in cui non sono più i protagonisti
ma comparse che riempiono il quadro, colmando gli spazi vuoti. Noi sappiamo che
fine abbiano fatto Hermine e Arthur quando compaiono i nipotini, figli di
Ludwig che si è salvato perché è riuscito ad emigrare in Sud Africa. I bambini
parlano inglese, a loro la casa non dice nulla, la bambina si chiama Elisabeth
come la zia. Ed è forse Doris, la cuginetta, la bambina nascosta in un buio
scomparto, ultima rimasta nel ghetto svuotato? E quanta tristezza proviamo,
quando il nuovo proprietario, l’architetto di Berlino che era nella squadra di Albert
Speer, il famoso architetto di Hitler, usa l’asciugamano trovato nella rimessa:
c’è un leggero senso di ribrezzo al pensiero di chi lo ha toccato prima di lui?
Anche l’architetto di Berlino, però, sarà espropriato quando commette un errore
nel nuovo regime comunista: deve finire a tempo un edificio che gli hanno
commissionato e acquista le viti (le
viti!!!) a sue spese all’Ovest perché non se ne trovano nella splendida
patria comunista.
Che fine fa la casa? Fa la fine di tutto e
di tutti. Sarà demolita. Cesserà di essere una casa piena di respiri e di
ricordi per diventare le cifre dei metri cubi di macerie che dovranno essere
rimosse (in quanti viaggi, allora, dell’autoarticolato?). Un libro bellissimo,
capace di dire più di quanto non dica esplicitamente. Un’altra casa
indimenticabile.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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