vento del Nord
FRESCO DI LETTURA
Jón Kalman Stefánsson, “Grande come l’universo”
Ed.
Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 426, Euro 19,00
Vale per il singolo come per una
nazione, chi non conosce il proprio passato, o non vuole affrontarlo, perderà
se stesso nel futuro. Chi vuole andare avanti a volte deve prima tornare
indietro.
E’ per questo, per conoscere il
passato, che “Grande come l’universo”, secondo capitolo della saga della
famiglia di Ari dopo “I pesci non hanno gambe”, trabocca di storie altalenanti
tra passato e presente, tra Kefavlik nel sud ovest dell’Islanda e Nordfjordur
ad est, da un estremo all’altro di
questa isola nera di lava e bianca di ghiaccio, con una popolazione totale di
poco più di 300.000 abitanti, colonia danese dapprima, diventata stato sovrano
solo nel 1918 per subire una occupazione di forze armate americane, ad
intermittenza ma fino al 2006.
La voce narrante è sempre quella di un
oscuro ‘doppio’ di Ari, lo scrittore ritornato da poco in patria dopo un
lungo periodo passato in Danimarca. Ari è tornato e, ad un certo punto del
libro, si recherà in visita al padre che sta morendo ma, prima, debbono essere
raccontate altre storie, bisogna colmare gli spazi lasciati vuoti nel romanzo
precedente. Del famoso Oddur, nonno
di Ari, della moglie Margrét a cui forse Ari assomiglia- amava scrivere, Margrét, ha lasciato dei diari: possibile che la
nonna Margrét avesse coltivato un altro sentimento, per un uomo che, a
differenza di Oddur, non viveva solo per il mare ma che guardava le stelle e le aveva insegnato ad
amarle? Anche la madre di Ari scriveva, le avevano addirittura pubblicato un
racconto che aveva fatto infuriare il marito. Poi ci aveva rinunciato, era nato
Ari e dopo lei era morta troppo presto.
Il
tema della morte è un tema cupo di per sé. In Islanda (sarà per quel
paesaggio bianco e nero? sarà per il colore del mare che non è azzurro come il
Mediterraneo? sarà per le giornate corte e avare di luce per così tanti giorni
all’anno?) lo è ancora di più e sono tanti i morti che si affacciano dal
passato e si aggirano per le pagine del romanzo di Jón Stefánsson: il ricordo della madre è costante nel
pensiero di Ari, ma la perdita più straziante, l’assenza più sentita, il
personaggio intorno a cui percepiamo aleggiare un destino tragico (muore
giovane chi al cielo è caro), è Porđur
che non ha saputo sottrarsi a quello che il padre aveva scelto per lui- “è il
mare che ci rende uomini”, diceva Oddur, “il
mare decreta se sei un uomo oppure no”. Il mare può decretare che sei un
uomo morto, per uno stupido incidente. Porđur il poeta, Porđur che inventava
storie per la sorellina, Porđur che la madre avrebbe voluto mandare a studiare
a Reykjavic. E, di fronte a queste morti,
sbiadisce un poco la lucentezza dell’amore, non c’è niente altro di eterno.
Un’Islanda che è cambiata (la presenza
degli americani è stata responsabile per le nuove ventate di mode e consumismo)
e che continua a cambiare è sullo sfondo di tutte le storie di Stefánsson. Il
passato non ritorna mai, si può solo ricordare il tempo di una vita più dura e
di una più grande semplicità. E c’è rimpianto
nel ricordo. Rimpianto per quello che è andato perso. Nel suo diario la
nonna aveva scritto, ‘nessuno si preoccupa di cambiare le cose, a parte il
proprio taglio di capelli di tanto in tanto e la disposizione delle sedie in
soggiorno. Che ne sarà della giustizia e
della bellezza, se muoiono gli ideali?’.
Un pensiero
grande come l’universo su cui riflettere.
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