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Voci da mondi diversi. Cuba
testimonianze
FRESCO DI LETTURA
Enrica
Matricoti (a cura di), “Che Guevara e i suoi compagni. Uomini della guerriglia in Bolivia”
Ed. Zambon, trad. C. Screm, pagg. 442,
Euro 25,00
9 ottobre 1967: un’altra delle date che non si dimenticano.
Il 9 ottobre del 1967, a La Higuera in Bolivia, Ernesto Guevara de la Serna,
conosciuto come ‘il Che’, fu ucciso
dal reparto antiguerriglia dell’esercito boliviano del dittatore Barrientos e
da forze speciali statunitensi costituite da agenti della CIA. Gli furono
tagliate le mani, il suo corpo venne esposto al pubblico prima di essere
sepolto in un luogo segreto. Sarebbe stato ritrovato trent’anni dopo, nel 1997,
grazie ad una missione di antropologi forensi argentini e cubani autorizzata
dal presidente Sanchez de Lozada ed ora riposa nel mausoleo di Santa Clara, a
Cuba. I suoi nemici non si erano resi conto che, con questa morte
spettacolarmente violenta, avrebbero definitivamente trasformato in un eroe un uomo carismatico già molto amato.
Il libro della giovane studiosa e ricercatrice sul campo Enrica
Matricoti, “Che Guevara e i suoi compagni. Uomini della guerriglia in Bolivia”,
ha un taglio particolare, non è il solito racconto degli eventi che portarono
il Che a combattere in Bolivia inseguendo l’utopia di uguaglianza e libertà per
tutti i popoli dell’America Latina. E’ una raccolta
di testimonianze da parte di figli e nipoti di coloro che erano al suo
fianco e morirono con lui, di due guerriglieri sopravvissuti, di Ulises
Estrada, ex ambasciatore e agente cubano dell’intelligence che partecipò alla
spedizione in Congo del Che (Ulises Estrada ha scritto un libro sull’unica
donna tra i guerriglieri, Haydé Tamara Bunke Bider, nome di battaglia Tania) e di Orlando
Borrego, amico del Che e suo viceministro nel ministero dell’Industria. Sono interviste, quindi, che ci
restituiscono il tono di voce di chi rivisita i propri ricordi, ed Enrica
Matricoti ha incontrato queste persone nel 2008-2009
all’Avana quando collaborava come fotografa alle riprese di un documentario
sul Che.
Tania |
Le domande sono più o meno sempre le stesse, ma noi non ci stanchiamo di
leggere le risposte, diverse secondo il vissuto di ognuno. Parla il figlio di Pacho (tutti i nomi che
cito sono quelli di battaglia, nel libro li troverete accostati a quelli veri)-
il guerrigliero poeta che teneva un diario e aveva scritto di aver liberato una
farfalla da una ragnatela-, parla il
figlio di Arturo (era operatore radio), parla Elsa (la moglie di Arturo), parla il figlio di Papi (fratello di Arturo), parla il figlio di Rubio (l’unico di cui non si
è ancora trovato il corpo). Dalle loro parole balza fuori il ritratto di uomini
che i figli quasi non hanno conosciuto, di cui sanno quello che gli è stato
detto, quello che hanno capito da frasi di lettere che i padri hanno scritto
alle mogli o che (straziante) hanno lasciato per i figli bambini, un lascito per quando fossero cresciuti,
per farsi perdonare la colpa di doverli abbandonare per seguire un dovere che
sentivano più forte, un ideale che era
un estremo senso di responsabilità verso altri esseri umani. Sono tutte
concordi, queste testimonianze di figli ormai più vecchi dei loro padri quando
sono morti, e anche quella di Elsa. Tutti, indistintamente, approvano le scelte dei padri e li ammirano,
tanto quanto ammirano le madri che li hanno cresciuti da sole e nel culto degli
scomparsi.
C’è un leggero cambio di registro
nelle testimonianze dei sopravvissuti e di Ulises Estrada. Qui i ricordi degli
avvenimenti sono ancora nitidi come mezzo secolo fa- la scelta della Bolivia
come campo di azione, la difficoltà della vita alla macchia, la fame, la sete,
lo strazio del non poter dare cure mediche adeguate ai feriti, l’agguato, la
notizia sentita alla radiolina portatile dell’arresto e della morte del Che. Il Che giganteggia in tutti i racconti,
in tutti i ricordi. Il Che diventa più che mai, e per sempre, il simbolo del guerrigliero rivoluzionario.
Perché questa è la domanda più interessante, quella che più connettiamo con i
nostri tempi: che cosa significa essere
un guerrigliero, allora ed oggi? E la risposta è unanime: guerrigliero è chi è disposto a lasciare le
cose che ama e a sacrificare la sua vita per i suoi principi, chi è capace di
dare tutto per delle conquiste fondamentali e necessarie.
Mentre leggiamo questo libro (corredato da bellissime foto nonché da
un’appendice storica), non possiamo fare a meno di avvertire con sempre
maggiore disagio la distanza che ci separa da quel tempo di impegno personale
totale e di pensare a quello che Brecht fa dire ad un allievo di Galileo e a
Galileo stesso, “Disgraziato il paese che non ha eroi”, “Felice il paese che
non ha bisogno di eroi”. E il paese che
non ne ha e non sa di averne bisogno?
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
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