Voci da mondi diversi. Area germanica
autobiografia
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Dieter Schlesak, “L’uomo senza radici”
Ed. Garzanti, trad. Tomaso
Cavallo, pagg. 452, Euro 18,60
Non ricordo di aver letto un libro
stillante dolore come “L’uomo senza radici” di Dieter Schlesak. E’ raro che qualcuno
abbia il coraggio di guardare con tanta lucidità e onestà dentro di sé, intorno
a sé, nel suo passato. Scavando con meticolosità, incidendo col bisturi nel
cuore dei ricordi, fino farlo sanguinare. Prendendo su di sé le colpe di altri
per un eccesso di scrupolosa responsabilità condivisa- che cosa avrei fatto io
al loro posto?, si chiede l’autore.
E’ un uomo
senza radici, Dieter Schlesak, perché non c’è più la terra in cui affondavano
le sue radici. Nato a Schässburg, l’odierna Sighişoara, in Romania, era un Volksdeutch, come venivano chiamati i
tedeschi delle minoranze che vivevano nei paesi non appartenenti al Reich.
Erano tedeschi, si sentivano tedeschi, la loro lingua era il tedesco,
Dieter Schlesak si è sentito libero di
scrivere questo libro autobiografico, così come “Il farmacista di Auschwitz”
pubblicato lo scorso anno, solo dopo la morte della madre. Perché- come mi ha
detto lui stesso durante un’intervista- non voleva causarle dolore con quello
che avrebbe scritto. Nel caso de “Il farmacista di Auschwitz” perché Victor
Capesius, il proprietario della farmacia di Schässburg, che consegnava le latte
di Zyklon B da versare nei condotti delle docce delle camere a gas, era un
amico di sua madre. In quel viaggio nella memoria che è “L’uomo senza radici”,
tutto sarebbe causa di dolore per sua madre. Perché Dieter Schlesak si carica
sulle spalle il peso dell’adesione al nazismo della sua famiglia, degli amici
di famiglia, di coloro che frequentavano la loro casa. Allora lui era un
bambino ma- ed è questo che lo tormenta-, se fosse nato dieci anni prima, se
fosse stato in età da arruolarsi, con l’educazione ricevuta, il senso del
dovere e l’obbligo di obbedienza che gli erano stati inculcati, non avrebbe
fatto le stesse scelte degli zii, non si sarebbe macchiato anche lui di quelle
colpe per cui lo zio Roland (e gli altri) si giustificavano dicendo che non
potevano fare altrimenti, che obbedivano agli ordini?
Il viaggio nel passato di Dieter Schlesak
sembra, a tratti, una discesa nell’Inferno dantesco, per la cupezza dei
ricordi, per la folla di morti che si accalcano intorno allo scrittore, di
ombre che ritrovano la voce per un’ultima opportunità di parlare, attraverso di
lui. Ombre di persone, ombre di luoghi, ombre di case che Schlesak fatica a
riconoscere oggi. Lasciandolo traboccante di un doppio dolore, per dei ricordi
che devono essere dimenticati e per
la consapevolezza che dovrà continuare a vivere desiderando di tornare e non
riuscendo a tornare, semplicemente perché ‘il nostro Scheszbrich non esisterà
mai più!’.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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