Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
INTERVISTA
A TRACY CHEVALIER, autrice de “I frutti del vento”
Conosco Tracy Chevalier da tanti anni ormai
ma, anche se non l’avessi mai incontrata, sarebbe impossibile non individuarla,
quando appare nell’atrio dell’albergo milanese dove abbiamo l’appuntamento per
l’intervista: ha con sé una piccola valigia, pronta per la partenza, e su uno
dei lati della valigia campeggia il quadro di Vermeer, la ragazza con l’orecchino di perla
che la scrittrice ha fatto vivere nelle pagine del libro che le ha dato la
fama. Mi dice che è un regalo del museo dell’Aia dove è esposto il quadro e
aggiunge sorridendo che suo marito e suo figlio non usano mai quella valigia…
la scrittrice con l'interprete e la giornalista Laura Pezzino durante la presentazione del libro lunedì 1 di febbraio |
Quando ho iniziato a leggere questo
romanzo ho pensato che sembrava essere la seconda tessera di un puzzle che
avrebbe rappresentato la Storia di un’America minore. Ne “L’ultima fuggitiva”
si parlava della ‘ferrovia sotterranea’ e degli schiavi fuggiaschi, in questo
di agricoltura e della grande avventura all’Ovest. E’ qualcosa del genere che
ha in mente, di scrivere una sorta di storia d’America?
Anche
io me lo sono chiesto, se fosse questo che ho in mente di fare, ma in realtà
non ho grandi progetti. Scrivo un libro alla volta. Però non penso di avere
ancora finito con l’America, anche se non so da dove verranno altre storie. Per
ora ne ho scritto due e non so nulla degli altri che forse scriverò. Di certo
quello su cui sto lavorando adesso è qualcosa di molto diverso: la casa
editrice Hogarth ha lanciato un progetto scespiriano, cioè ha chiesto a
parecchi scrittori di scegliere un’opera di Shakespeare e di farne un romanzo,
reinterpretandola per i lettori di oggi. Dopotutto anche sul palcoscenico molto
spesso vediamo delle reinterpretazioni dei capolavori di Shakespeare. Io ho
scelto “Othello” e ho trasportato la tragedia nel campo giochi di una scuola
americana negli anni ‘70 del 1900, con protagonisti che hanno undici anni. Il
protagonista è un bambino di colore, qualcuno di diverso che appare in questa
società bianca. E’ un romanzo sul bullismo, ambientato tra bambini e puntando
l’attenzione a come reagiscono ad un estraneo. Non penso che l’ “Othello” di
Shakespeare sia una tragedia sull’amore, altrimenti non avrebbe senso
ambientarla tra dei bambini. E trovo facile scrivere questo libro perché so già
dove va a finire la storia e posso pensare ad altro. Gli altri scrittori che
partecipano al progetto sono Jeanette Winterson, che ha scelto “Storia d’inverno”,
Ann Tyler con “La bisbetica domata”, Margaret Atwood con “La tempesta”, Jo
Nesbo con “Macbeth”. Il romanzo di Howard Jacobson che ha reinterpretato “Il
mercante di Venezia” è già stato pubblicato in Inghilterra. Parte del problema
di questo progetto è l’uso della lingua da parte di Shakespeare- noi non
possiamo certo scrivere come lui. E, a proposito di Ann Tyler, lei ha detto che
‘riscriverà’ “La bisbetica domata” perché è una delle opere che non le
piacciono affatto e vuole cercare di interpretarla diversamente.
Prima gli alberi di mele
e poi le sequoie- mi incuriosiscono le sue curiosità, i quadri, i fossili, gli
alberi…Come è iniziato l’interesse per gli alberi? E sono venuti prima i meli o
le sequoie?
Prima sono venuti gli alberi di mele,
poi ho incominciato a pensare ad altri alberi, ad un bosco di redwood, un tipo
di sequoia che avevo visto più o meno venticinque anni fa nella parte
occidentale dell’Inghilterra. Quegli alberi erano stati piantati negli anni ‘50
del 1800 e non sono originari dell’Inghilterra. Ho iniziato così a fare delle
ricerche e tutti pezzi del puzzle si sono composti insieme per formare un
romanzo diviso in due parti e in due diverse ambientazioni: gli alberi di mele
ad Est e le sequoie ad Ovest. Quando scrivo un libro non so subito tutto, il
libro si costruisce a poco a poco nella mia mente.
Ho cercato su internet
fotografie delle sequoie e ne sono rimasta affascinata: che cosa ha provato
quando le ha viste per la prima volta?
Che
cosa ho provato? Sono alberi così grandi che subito non capisci neppure che
cosa stai guardando. Sono incomprensibili nella loro maestosità. Prima li vedi
da lontano e pensi, beh, non sono poi così grossi. Poi ci arrivi sotto e…sono
enormi. Ho dovuto toccarne il tronco per crederci, per mettermi in contatto con
loro. Se guardi in alto, ti gira la testa. E hai la sensazione che il mondo è
più grande e complicato della tua semplice vita nel mondo. Fa bene guardarli,
ci porta fuori da noi stessi. Ci dà sollievo il sentire che non siamo così
importanti. Galileo diceva che non siamo il centro dell’universo. Accanto alle
sequoie capisci che non sei più l’attore centrale, sei una piccola parte del
tutto e per te finisce per essere un sollievo.
Le ha viste anche in
Inghilterra? Hanno avuto successo le spedizioni dei semi di sequoia?
Sì
e si trovano un po’ dappertutto in Inghilterra e in Scozia. Naturalmente sono
necessari vasti spazi di terreno- dobbiamo pensare che oltre tutto chi li ha
piantati non sapeva neppure quanto grandi questi alberi sarebbero diventati
dopo duecento anni. In California le sequoie più grosse hanno anche 500 o
perfino 1000 anni.
Nel romanzo ci sono
personaggi fittizi e personaggi reali: mi può dire qualcosa sui personaggi
reali del romanzo?
I personaggi veri: Johnny Appleseed, che
in realtà si chiamava John Chapman, è un personaggio famoso del folklore
Americano. Da bambina avevo letto su di lui, ha sparso alberi di mele in tutto
l’Ohio e ha incoraggiato un’alimentazione sana. Ho scoperto un libro sulla sua
vita e mi sono documentata: se fai crescere un albero di mele piantando il
seme, le mele verranno aspre, del tipo che va bene per fare il sidro.
John
Appleseed vendeva i semi e la maggior parte delle mele di quegli alberi erano
per l’alcol che serviva per riuscire a sopportare la dura vita dei tempi. Ho
avuto la visione di Appleseed che vendeva i semi ad una coppia in cui il marito
vuole le mele dolci e la moglie quelle aspre- ho invertito i soliti ruoli,
facendo della donna quella che si ubriaca, invece dell’uomo. Appleseed è il
commerciante, vede gli alberi come commercio. Lo stesso è per l’altro
personaggio reale, William Lobb, il botanico che vende i semi delle sequoie in
Inghilterra. Nell’800 gli inglesi avevano alberi decidui, poi hanno scoperto i
sempreverdi che offrono un paesaggio splendido in ogni stagione. Nel romanzo ho
voluto tracciare una pista di emigrazione- la gente che va verso Ovest per fare
fortuna e il muoversi degli alberi. E quindi ecco perché ci sono questi due
uomini, per ancorare il libro.
John Chapman 'Appleseed' |
Del tutto diverso, ma anche lui un
personaggio reale è Robert, anche se non lo si può sapere leggendo il libro.
Quando ho scritto “L’ultima fuggitiva”, ho visitato un villaggio Hamish e per
caso ho visto un ragazzino molto timido con degli occhi color ambra. Sono
riuscita a parlare con lui- e solo un poco- quando è apparsa una gatta con dei
micini, e non credo lo rivedrò mai più. Però ho pensato che lo avrei messo nel
prossimo romanzo: lui è Robert.
C’è un personaggio che,
secondo me, è molto negativo, ed è Sadie. Possiamo giustificarla con la vita
dura delle donne dell’epoca? Perché ha creato un personaggio così ‘cattivo’?
Sadie
e James non si sarebbero dovuti sposare, non è stato un matrimonio d’amore,
Sadie era innamorata del fratello di lui. E non era ben vista dalla famiglia di
James. Sadie è la regina del dramma: cerca attenzione dove può trovarla. Ma le
donne ridono alle sue spalle e lei è incapace di relazionarsi con gli altri. Mi
fa pena, però penso sia un personaggio realistico.
Mi ha interessato molto
la città di San Francisco come appare nel romanzo, così diversa da quella che
conosciamo ora. Come possiamo definire le differenze tra San Francisco e New
York nel diciannovesimo secolo?
Nel
diciannovesimo secolo New York era stata abitata per molto più tempo di San
Francisco ed era legata all’Europa da vincoli culturali e di scambio. San
Francisco era lontana, era difficile da raggiungere. Crebbe smisuratamente
durante la Corsa all’Oro: era un villaggio di un migliaio di abitanti e raggiunse
il numero di 30.000. Dobbiamo ricordare che la California non era ancora parte
degli Stati Uniti.
San Francisco era piena di uomini e c’erano pochissime
donne. Gli uomini andavano là per fare fortuna. Era stata un piccolo porto e
poi, quando tutti i marinai si diedero
alla ricerca dell’oro, centinaia di imbarcazioni furono abbandonate. Non
c’erano strutture sociali, non c’era niente a trattenere gli uomini dall’essere
selvaggi. Si mirava a far soldi velocemente, si giocava d’azzardo, si andava a
puttane, ci si ubriacava. In genere le città non crescono così velocemente.
Questo faceva la differenza con New York dove c’erano scuole e strutture
sociali del tutto assenti in San Francisco.
l'intervista sarà pubblicata anche su www.stradanove.net
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