Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
guerra dei Balcani
il libro ritrovato
Natasha Radojcić-Kane, “Ritorno a casa”
Ed. Adelphi, trad.Roberto Serrai, pagg. 176, Euro 13,50
“Ritorno a casa” è anche il
titolo di un libro della splendida trilogia di Eugene O’Neill, “Il lutto si
addice ad Elettra”. Nel libro di O’Neill, come in quello della scrittrice
bosniaca Radojcic-Kane, il ritorno a casa è un ritorno dalla guerra, guerra
civile americana in uno, guerra civile tra serbi, croati e bosniaci nell’altro.
Sempre un ritornare dalla morte alla vita, ammesso che ci sia ancora una vita
interiore dopo l’inferno che si è attraversato. Una fame di “casa” che è fame
di affetti, necessità di ritrovare qualcosa che non è cambiato, per rimettere
indietro le lancette del tempo. Per dimenticare. E ritorno a casa significa
sempre tornare da una donna. Che è innamorata di un altro, nel dramma di
O’Neill. Che ha sposato un altro, nel romanzo della Radojcic-Kane, ma questo
Halid lo sapeva, perché era successo prima che lui partisse per Sarajevo. Mira
aveva sposato il suo miglior amico, Momir. Ma Momir era saltato in aria su una
mina e Mira viveva con la suocera e un bambino che forse era figlio di lui,
Halid. Che cosa era successo a tutti loro? Che senso aveva avuto, trovarsi su
due fronti diversi, il cristiano Momir e il musulmano Halid?
E’ un triste
tornare quando si fanno i conti di chi è rimasto. Il ritorno di Halid è soffuso
di un’aura di gloria, è l’eroe a cui si chiede com’era nelle trincee e se ha
ucciso qualcuno. Si va in guerra per uccidere, no?, anche se non sempre è il
nemico che muore. Halid ha ucciso qualcuno, la figlia dell’unico comandante musulmano
proveniente dal suo villaggio, un tragico errore, un ricordo che lo perseguita,
che non lo lascia dormire, perché se si chiudono gli occhi prima dell’alba,
quella è l’ora in cui ti catturano i fantasmi. Halid ha rubato anche dei soldi
alla ragazza morta ed è con quelli che intende pagare la suocera di Mira perché
la lasci libera di sposarlo. Ma i soldi non sono sufficienti e, quando inizia
la partita a carte con gli zingari e tutti incominciano a bere, abbiamo sentore
di come andrà a finire. Perché Halid perde tutto, c’è qualcuno che sa da dove
gli vengano quei soldi e Halid viene “giustiziato”. La madre di Momir aveva
giurato che non avrebbe più pregato dopo la morte del figlio, della madre di
Halid ci resta negli orecchi quel lamento, “figlio mio, figlio mio, figlio
mio”, come in una laude di Jacopone. Il lampo di un pensiero per Halid morente:
non muore di infarto come suo padre, solo le donne muoiono di morte naturale,
lui ha seguito la tradizione dei suoi antenati, muore soffocato nel suo sangue.
E, come in un dramma greco, non resta nessuno sulla scena, solo tre donne sole,
una è giovane e ha un bambino: lo farà diventare grande per mandarlo in
un’altra guerra?
Una scrittura straordinaria, quella di Natasha Radojcic-Kane,
che ha trovato il tono più giusto per parlare dell’orrore della guerra. Una
guerra per tutte le guerre, si fa il nome di Sarajevo, si parla di serbi e
croati, di cristiani e musulmani, ma si tratta di limitazioni insignificanti.
Quello che colpisce è la distruzione che la guerra lascia dietro di sé, campi
non coltivati, negozi abbandonati, finestre infrante. Fame. Macerie, anche se,
nei versi di Ungaretti, “è il mio cuore/ il paese più straziato”. E lo stile
asciutto della Radojcic-Kane che non fa alcuna concessione a un facile sentimentalismo
è come un film in bianco e nero per rappresentare un mondo da cui il colore è
scomparso.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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