Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
il libro ritrovato
autobiografia
intervista
Natasha Radojčić, "Domicilio sconosciuto"
Ed. Adelphi, pagg. 185, Euro 14,00
Il libro
precedente di Natasha Radojčić, “Ritorno a casa”, aveva segnato l’esordio
brillante della scrittrice nata a Belgrado e residente ora in America, un
romanzo forte e drammatico, una storia di amore e di morte in un paese
distrutto dalla guerra. “Domicilio
sconosciuto”, appena pubblicato sempre da Adelphi, è
scritto nello stesso stile secco, quasi brusco, distaccato, come a voler
evitare sentimentalismi e autocommiserazione. Un romanzo in gran parte autobiografico che ha per protagonista
una ragazzina di quattordici anni, Saša, ricoverata in un istituto psichiatrico all’inizio del libro. Non è matta, Saša, è solo scappata di casa. Ha una madre
bellissima, bianca e bionda, che fa la professoressa e ha grandi ambizioni per
lei; lo zio è un alto funzionario del governo di Tito; suo padre è per metà
zingaro, ma lei non lo ha mai conosciuto, sa solo che raccontava un sacco di
fandonie e che lei ha preso da lui la carnagione scura, il colore dei capelli e
degli occhi. Saša dimostra più anni di quelli che ha ed è stato un cugino dai
riccioli biondi e dall’aspetto angelico ad iniziarla al sesso. La famiglia
della madre teme gli scandali, Saša viene mandata prima dalla nonna
arteriosclerotica in Bosnia- altro scandalo, se l’intende con un poliziotto;
gli zii la mandano a Cuba dove c’è un altro zio ambasciatore…e un bel negretto
con cui fare l’amore sulla spiaggia. Quando rientrano a Belgrado e la mamma si
ammala di cancro, la vita di Saša
incomincia a rotolare, ogni scalino
è una discesa sempre più in basso, ogni esperienza un tentativo per riempire il
cuore, per dimenticare la mamma distesa nel letto, per fuggire.
Da Belgrado ad
Atene, dove il padre vive con un nuovo amore e un nuovo figlio- ma a suo padre
importa solo che lei non gli chieda soldi e lo lasci tranquillo. Dal bere a
fumare hashish, a spacciare, a farsi di roba più pesante, il passo è breve. E
poi la mamma muore. Non ci sono lacrime quando la disperazione è totale, Saša non vuole restare in una famiglia
in cui lo zio dice di lei, “è una mela marcia”. Falsifica il diploma, falsifica
la data di nascita e il conto in banca per ottenere un visto per l’America. Il
degrado della zona di New York in cui va ad abitare non è molto diverso da
quello del paese che ha lasciato- Saša
precipita per la via in discesa, lavora in un sexy-shop, balla in locali
equivoci, è sempre fatta, insieme al suo nuovo amichetto o con un’amica e il
ragazzo di questa, in giochi di sesso a tre, a quattro. Finché un uomo “dalla
camicia più bianca e più pulita che abbia mai visto” si interessa a lei, anche
lui è un pusher- ma l’aiuta a tirarsi fuori. Non è la prima storia del genere
che leggiamo, ma c’è qualcosa di diverso
nel tono di Saša, qualcosa della ribellione femminile di certe eroine dei
romanzi secenteschi inglesi nel sarcasmo
con cui Saša sferza l’ipocrita
perbenismo della famiglia, quella che sembra spavalderia è una fragilità dolorosa, quella che sembra
voglia di essere grande e di bruciare le tappe a rischio di bruciarsi la vita è
la voglia di mostrare a chi ci rifiuta che ce la facciamo da soli, che noi siamo noi. E l’indifferenza
davanti alla morte della mamma è la maniera per vincere la morte, per mantenere
la mamma sempre giovane nel ricordo. Sullo sfondo, nella tensione che si
avverte tra cattolici e musulmani, in certi brevi flash sul destino degli amici
di Saša, intravediamo il futuro della
guerra in Jugoslavia. Stilos ha parlato con Natasha Radojčić dei suoi due
romanzi.
Belgrado |
INTERVISTA A Natasha Radojčić
Il suo secondo libro è
molto diverso dal primo e tuttavia in entrambi c’è una guerra, una guerra
interiore in questo caso- la vita è una guerra?
Sì,
è vero, il mio personaggio affronta tutta una serie di lotte psicologiche e sì,
immagino che la vita sia una guerra. Parte della vita è lotta, fa parte della
condizione umana, in un certo senso è il prezzo più o meno caro da pagare per
raggiungere la felicità, anche se non è necessariamente così per tutti.
E in entrambi i titoli
c’è un riferimento alla casa, “Ritorno a casa” e “Domicilio sconosciuto”- nel
primo c’era un soldato che ritornava a una casa che non era più la stessa e in
questo c’è la perdita della casa: dove è “casa” per lei?
Da
nessuna parte. Non sono mai a mio agio da nessuna parte, per questo mi sposto
di continuo, per questo amo il romanzo di Kerouac “Sulla strada”. Mi sento una
zingara, sempre in giro. Non mi ricordo neppure che cosa voglia dire avere una
casa, ma non ne sento la mancanza, forse proprio perché non ne ho memoria. E
poi nel movimento c’è libertà, ed è stata una mia scelta.
In genere un libro
autobiografico viene scritto per primo da un autore, come una liberazione- come
mai, invece, lei lo ha scritto per secondo?
Dirò
invece perché ho scritto prima “Ritorno a casa”: era morto l’uomo con cui
stavo, in un incidente di moto. Era di Sarajevo, non aveva voglia di vivere,
non trovava un senso nella vita. E il libro l’ho dedicato a lui e a mia madre.
Anche “Ritorno a casa” è autobiografico, anche se in un senso meno ovvio, è un
libro intorno a tutto quello che ho perso, mia madre e lui, che aveva solo 34
anni e voleva morire, perché era ubriaco e nessuno è così pazzo da guidare una
moto da ubriaco, meno che mai a New York.
Saša dice “Qualche mese
prima non esistevo. Non esisteva niente di me”. Quando ha iniziato a
“esistere”?
Saša incomincia a esistere quando scappa. Lei
sentiva il carico delle aspettative della sua famiglia e avrebbe voluto
renderli felici, contenti di lei, voleva la loro approvazione, ma non può
essere quello che non è. E’ nella fuga che trova se stessa e continua a fuggire.
Saša dice, “avevo sete,
avevo sempre avuto sete”- sete di che cosa? Sete d’amore?
Sete
di vita, penso. Anche se devo dire che solo ora capisco che cosa è la vita, che
le cose più importante nella vita sono la bontà e l’amore che ci si può dare
l’uno all’altro- è questo di cui ho sete nella vita.
Saša dice di aver paura
di portare sfortuna, perché la sfortuna le sta appiccicata addosso. Eppure noi
abbiamo l’impressione che la vita in cui si getta non sia sfortuna e che sia
fortunata ad essere sopravvissuta alle sue esperienze.
Quando
ho scritto il libro, l’ho scritto dal punto di vista di Saša; non ero ancora
consapevole, non avevo ancora una visione retrospettiva della mia vita, non
sapevo quanto fossi stata fortunata finché non ho finito di scrivere. E’ Saša
che si sente sola e sfortunata e io sento, noi sentiamo che è fortunata alla
fine del libro.
E’ cresciuta con una
mamma musulmana e un padre cattolico:
significa qualcosa la religione per lei?
Non
la religione intesa come pratiche religiose, non la religione che porta
all’intolleranza. Ma l’amore per Dio è molto importante per me, lo spirito
religioso è importante. La religione di per sé può essere molto pericolosa, la
pratica della religione è pericolosa. C’è troppa gente che muore per la
religione e anche violentemente- e questo è intollerabile.
Il padre di Saša- suo
padre- è in parte di sangue zingaro, c’è una tradizionale diffidenza verso gli
zingari, i bambini vengono minacciati che verrà lo zingaro a portarli via se
non fanno i bravi. Che cosa vuol dire per lei essere in parte zingara?
Siamo
diffidenti verso gli zingari perché siamo razzisti, anche se in America non si
parla neppure degli zingari- loro hanno i neri verso cui essere razzisti.
Essere in parte zingara mi ha dato l’orecchio per la musica e per le lingue.
Però la cultura serba è diversa dalle altre culture, è una cultura guerriera.
Da noi non si insegna ad aver paura di nessuno, da noi si insegna ad attaccare.
Nel libro ci sono come
delle anticipazioni sulla guerra a venire: lei era lontana quando scoppiò la
guerra, vero? Come l’ha vissuta?
Ero
lontana quando è scoppiata, invece ero là quando andò al potere Milosevic e
quando sono iniziati i problemi con il Kosovo. Quando c’era la guerra ed ero in
America, ho vissuto nel buio. Non funzionavano i telefoni e non sapevamo
niente, chi fosse in vita e chi fosse morto. Solo ogni tanto filtrava qualche
notizia: è stato un periodo orrendo.
Milosevic |
Il libro è dedicato alla
sua mamma, “perché non si preoccupi”. Come sarebbe stata la sua vita se sua
mamma fosse vissuta?
Non
riesco neppure a immaginarlo. Sono ancora, sempre, così “innamorata” di mia
madre. La sua perdita è stata…impossibile a dirlo…enorme, devastante. No, non
riesco a immaginare la mia vita, se lei non fosse morta.
Nessun commento:
Posta un commento