domenica 14 febbraio 2016

Almudena Grandes, “Il ragazzo che leggeva Verne” ed. 2012

                                                        Voci da mondi diversi. Penisola iberica
              la Storia nel romanzo
              guerra civile spagnola
                il libro ritrovato

Almudena Grandes, “Il ragazzo che leggeva Verne”
Ed. Guanda, trad. Roberta Bovaia, pagg. 413, Euro 18,50
Titolo originale: El lector de Julio Verne



Quando Cencerro e Crispín intonarono a gran voce l’Internazionale, il tenente colonnello Marzal bestemmiò. In quel momento si rese conto che, invece di vincere quella battaglia, l’aveva già persa, perché ci sono morti che valgono di più di tante vite messe insieme. E capì che Crispín e Cencerro stavano per morire, si stavano accomiatando, ma che loro non erano riusciti a eliminarli, perché sarebbero nati tanti bambini che si sarebbero chiamati Tomás e avrebbero avuto fratelli battezzati José Crispín, e prima o poi tutti loro avrebbero scoperto la ragione per cui portavano quei nomi.

      Lo chiamano Nino per distinguerlo da suo padre Antonino. Ha nove anni quando incomincia a parlarci del triennio del terrore, 1947-49, a Fuensanta de Martos dove vive con la famiglia. Non in una casa come le altre, ma nella caserma. Abitare nella caserma perché suo padre è una guardia civil è uno dei punti chiave della storia di formazione che Nino ci racconta. Perché non è vero che la guerra civile spagnola è finita nel ‘39: “era una guerra e non sarebbe finita mai”, è il leit motiv del nuovo romanzo di Almudena Grandes, secondo della serie di “Episodi di una guerra interminabile” iniziata con “Inés e l’allegria”. Le mura sono sottili all’interno della caserma, sono paratie erette per far spazio alle famiglie delle guardie, e si sente tutto quello che avviene.
Il peggio avviene di notte- grida, colpi, urla, gemiti. E quando cala il silenzio l’immaginazione proietta nella mente scene terribili. La sorellina minore di Nino si rifugia nel letto del fratello e lui la rassicura come può- le dice che stanno proiettando un film, non sta succedendo niente, no, quella non è la voce della persona che lei pensa, è un attore che sta parlando. Lui, Nino, sa che non è così e incomincia a farsi delle domande. Quando suo padre gli annuncia che gli farà prendere lezioni di dattilografia, perché Nino è piccolo di statura e non sarà di certo ammesso nel corpo delle guardias civiles, Nino è contento perché non ha nessun desiderio di calcare le orme del padre. Forse, senza mai dirlo, anche il padre preferisce che il bambino resti piccolo di statura. Ed è così che Nino sarà autorizzato a recarsi regolarmente al podere delle Bionde dove sono rimaste solo donne- gli uomini, oppositori al regime franchista, o sono passati in Francia o sono morti. Laggiù Nino imparerà a scrivere a macchina con una vedova ‘rossa’ che gli insegnerà anche il francese e gli spalancherà il mondo dei libri. Alla lettura lo aveva già istradato, quasi per caso, Pepe il Portoghese, un giovane che è venuto a vivere sulla montagna dietro Fuensanta con cui Nino ha stretto amicizia. Un uomo alquanto misterioso, questo Pepe il Portoghese, eppure, forse perché è così cordiale, amichevole e servizievole, forse perché è di così bell’aspetto e dall’apparenza innocua, nessuno si fa delle domande su di lui. Anche perché l’attenzione di tutto il paese- guardias civiles e abitanti- è puntata sul mitico guerrigliero Cencerro.
Tomás Villén Roldán

      Se Nino è il protagonista bambino, la voce narrante che ci racconta dal punto di vista di un’innocenza violata i colpi di mano dei partigiani, le rappresaglie delle guardie, gli arresti, le fucilazioni nella schiena secondo ‘la legge della fuga’, Cencerro è l’eroe assoluto del romanzo. Uno di quegli eroi da romanzo epico che cessano di essere uomini in carne e ossa e diventano leggende. Perché il primo Cencerro si chiamava in realtà Tomás Villén Roldán e si era suicidato il 17 luglio 1947 per non cadere nelle mani di chi gli stava dando la caccia.
Ma Cencerro non poteva morire: viveva in quella stupida canzonetta “La mucca da latte” che era proibito cantare nella Sierra del Sud perché un verso diceva che alla mucca si era legato al collo un cencerro, un campanaccio, e le voci si alzavano trionfanti a quella parola; viveva in chi aveva preso in mano le redini della guerriglia assaltando l’auto che trasportava il sindaco con una borsa piena di soldi e lasciando poi una banconota firmata ‘Cencerro’ alla taverna del paese. Quando Pepe invita Nino a pensare su ‘come’ e ‘chi’ voglia diventare, in pratica la scelta è tra suo padre e Cencerro. Anche se Pepe (gran bel personaggio) riesce a far capire a Nino come suo padre non debba essere disprezzato, come ci possano essere dei casi in cui si è obbligati a scegliere tra due mali. E la scelta potrà tormentarci per tutta la vita. Ecco perché il mondo si capovolge quando Nino vede piangere suo padre.
     Con questo secondo romanzo- più svelto e compatto di “Inés e l’allegria”- si delinea più chiaramente il progetto di Almudena Grandes: disegnare un quadro con la tecnica delle tessere del mosaico, o del puzzle. Lo sfondo è il passato, non la Storia grande dei manuali, ma quella altrettanto grande fatta di persone vere (Nino ha un nome, esiste veramente, si chiama Cristino Pérez Meléndez), di piccole e grandi imprese, di sentimenti che solo ora possono essere rivelati. Prima che sia troppo tardi, che nessuno li raccolga, che cadano nell’oblio.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


    



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