Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Amos Oz, “Una storia di amore e di tenebra”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena
Loewenthal, pagg.627, Euro 19,00
Arriva un momento nella vita di
ognuno in cui ci si rende conto, quasi all’improvviso, che siamo noi “i
vecchi”, i depositari delle storie della famiglia, di tutti coloro che hanno
contribuito a fare di noi quello che siamo, e che è ora di raccontarle, perché
diventino il patrimonio di qualcun altro, mantenendo in vita chi non c’è più.
“Ogni storia è un’autobiografia, nessuna è una confessione”, dice Amos Oz
all’inizio del romanzo “Una storia di amore e di tenebra”, uscito per
Feltrinelli in prima traduzione mondiale. Perché anche i suoi precedenti
romanzi, dal più recente “Lo stesso mare” a “Il mio Michael”, contenevano
elementi autobiografici, ma “Una storia di amore e di tenebra” vuole proprio
essere la storia di 120 anni di vita della sua famiglia, dei due genitori e dei
quattro nonni: una storia lunga da raccontare, una lunga via da seguire, da
Vilna in Lituania e da Odessa in Russia, fino ad Israele, in cui il nonno
paterno era arrivato nel 1933 e la mamma di Amos nel 1934.
Tutti in fuga
dall’antisemitismo, immigrati in una terra sognata, ricordata ogni anno
augurandosi “l’anno prossimo a Gerusalemme”, e poi incapaci di dimenticare i
luoghi in cui erano cresciuti, come il nonno Alexander che continuava a scrivere
poesie in russo, anche se diceva “ non c’è più la Russia. E’ morta, adesso c’è
Stalin, c’è Berija, un’immensa prigione”. La prima parte del libro, quella che
rievoca un passato più lontano, è come sfumata, come se ci fosse una voce fuori
campo che narra, come se fossero storie ripetute tante volte nei circoli
familiari, con qualche variante che non ci si ricorda più chi l’abbia apportata.
A volte è la sorella minore della mamma dello scrittore che prende la parola, e
i suoi ricordi si mescolano a riflessioni sulla sorte delle donne, la cui vita
forse non è cambiata per nulla tranne che in apparenza, e forse si riferisce
anche a Fania, che era arrivata in Israele dopo aver studiato a Praga, e chissà
che cosa sperava di trovare e che cosa invece aveva trovato. E’ quasi a metà
libro che Amos Oz riesce a dire, “aveva 39 anni quando morì. Io dodici anni e
mezzo”. Perché è questo il ricordo indimenticabile, e tutti quelli del tempo
che precede sembrano convergere in questo momento, come se potessero spiegarlo.
Da questo punto, fino alla fine del romanzo, Amos Oz continua a ricostruire la
sua infanzia di figlio unico, il bambino un po’ saccente e precoce che aveva imparato
a leggere da solo, per ritornare sempre al ricordo di quegli anni in cui la
mamma aveva iniziato ad avere fortissimi mal di testa e a passare le notti
seduta su una sedia. Sembra che quell’immagine sia scomparsa, la vita va
avanti, nasce lo stato di Israele ed è subito guerra, lo scrittore va a
lavorare in un kibbutz, cambia nome e, così facendo, è come se uccidesse suo
padre e uccidesse Gerusalemme.
E poi la mente ritorna lì, a quella volta che la
mamma stava meglio, al suo sorriso che non era un sorriso, il senso di colpa
del bambino: se fosse stato più buono, se non avesse fatto rumore, se…Il tempo
si sposta ancora, nel kibbutz Amos Oz si innamora e sposa una ragazza piena di
gioia di vivere, adesso è padre a sua volta, ma nell’ultima pagina scrive
ancora, “se fossi stato laggiù”, e “laggiù” è la casa della zia dove la mamma
aveva voluto dormire per sempre. Bellissimo romanzo d’amore, per la madre, e
della tenebra spessa come un muro che ci separa da chi amiamo.Vilnius. la sinagoga |
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