Voci da Mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Amos Oz, “Non dire notte”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena
Loewenthal, pagg. 200, Euro 15,00
Theo ha 60 anni, è un progettista
alla fine della carriera. Noa ha quindici anni di meno, insegna letteratura.
Non sono sposati, vivono in una cittadina ai margini del deserto del Neghev.
Uno studente di Noa viene trovato morto, forse un incidente, forse per
overdose. Il padre del ragazzo incarica Noa di realizzare un centro per la
disintossicazione dei giovani ma il progetto incontra forti opposizioni e mette
a rischio l’equilibrio della coppia che, tuttavia, ritrova la serenità alla
fine.
INTERVISTA AD AMOS OZ, autore di “Non dire notte”
Il silenzio del deserto è una voce forte nel romanzo di Amos Oz “Non
dire notte” (appena pubblicato in Italia da Feltrinelli ma uscito in Israele
nel 1994). Punteggiato dal canto dei grilli. Interrotto dall’ululare dei cani
pastore dei beduini, un latrato che risponde ad un altro. “Questo è il deserto
nelle notti d’estate: antico. Indifferente. Vitreo. Né morto né vivo. Presente.”-
Theo ha seguito Noa a Tel Kedar, sul limitare del deserto, ma, stranamente,
questa vita immobile e pressoché immutabile lontano dai grandi centri abitati
si addice di più a lui che a lei, effervescente, vivace, disordinata, pronta ad
afferrare ogni brandello di vita.
A Theo Noa rimprovera proprio questa
condizione di non essere né morto né vivo, come il deserto. Di sembrare sempre
immerso in un sonno profondo, lui che paradossalmente soffre di insonnia. E’
vero, come la accusa uno dei membri del comitato preposto alla realizzazione
del centro per la riabilitazione dei tossicodipendenti, che Noa si è gettata in
questa impresa per noia? Perché non ne può più di parlare di Agnon a questi
studenti che sbuffano, a queste ragazzine che si chiamano tutte con lo stesso
nome e lei non ne distingue una dall’altra. Ad esseri sinceri Noa non si era accorta
né che Immanuel si drogasse né che avesse una particolare passione per la sua
materia né che fosse innamorato di lei, la sua insegnante. E la matita, che non
ricorda di avergli dato ma che per lui aveva avuto un’importanza tale da
accennarne al padre, diventa il rovello della memoria per Noa, finché- ecco,
gliela aveva data quando lo avevo sorpreso in infermeria: che cosa ci faceva,
che cosa cercava Immanuel in infermeria? E nasce il rimpianto di non aver
capito, di averlo sferzato con la sua ironia.
La realizzazione del centro, le discussioni
che ne conseguono, i timori e l’opposizione dei cittadini, forniscono una sorta
di pretesto per la storia di coppia di Theo e Noa di cui noi sentiamo le voci
in capitoli alterni, inframmezzati da qualche capitolo narrato, o osservato, in
terza persona. Non sono dialoghi e neppure monologhi, piuttosto una via di
mezzo o, come dice lo scrittore stesso, dei “dialoghi solitari”, del tipo che
si fa quando si è soli, quando si è al proprio meglio e si pensa di parlare con
gli altri. E, come già ne “La scatola nera”, la bravura di Amos Oz nel variare
lo stile a seconda di quale personaggio stia parlando è straordinaria: la
pacatezza quasi sonnolenta di Theo- viene spesso ripetuto che ha un viso largo,
da contadino, quasi a sottolineare la sua positiva ragionevolezza- viene scossa
dall’irruenza del linguaggio, dalla velocità e dall’estrosità dei comportamenti
di Noa. Dall’uno e dall’altra, con particolari uguali eppure diversi,
apprendiamo del loro incontro in Sud America, dei motivi differenti per cui
erano lì; lui rammenta il caffè stregato che lei gli aveva offerto per
conquistarlo, lei non se ne ricorda quasi; lei si era lasciata dietro anni di
cure al padre sulla sedia a rotelle, lui sognava di progettare spazi di
bellezza. Storie loro e di altri, di
tenerezza, di perdite, di avventure, di amore- il padre di Immanuel racconta
dello scimpanzé addomesticato che si era innamorato della moglie; Noa ricorda
il ragazzo irlandese a cui aveva dato un passaggio (è un caso che provenga da
un paese che ben conosce gli attentati terroristici?): cercava la ragazza con
cui aveva passato una notte, senza avere idea in quale kibbutz fosse, aveva detto
delle parole che Noa non dimentica, che se si ha un briciolo di bontà si trova
bontà ovunque.
E’ questo il sentimento che prevale nel
romanzo di Amos Oz, questo desiderio di bontà, di amore e di quiete. Si appiana
il turbolento legame tra Theo e Noa, si evita lo scontro con la cittadinanza
che non vuole rischiare accogliendo dei drogati, si giunge ad un compromesso e
in memoria di Immanuel verrà computerizzato il liceo. E se l’ultima frase del
libro è “e poi torno da lui nel buio”, questo non è un buio che intimorisce, è
il buio in cui si fa l’amore, è il buio attraverso cui riusciva a vedere il
beduino che chiamavano “Notte”. Senza farsi sentire da lui, “non dire notte” però, perché notte è
femminile in arabo e le differenze tra gli individui o tra i popoli vanno
rispettate. Stilos ha intervistato Amos Oz, in Italia per “Dedica”, il festival
di Pordenone di cui è ospite d’onore.
Lei vive in un paese da cui arrivano continuamente notizie di guerra,
eppure non si sentono i rumori della guerra in questo romanzo. Come mai?
Perché volevo scrivere una storia che non
fosse relazionata all’Israele della CNN, volevo che non fosse una storia di
guerra ma una storia della vita reale, perché c’è differenza tra l’Israele
della CNN e l’Israele della realtà quotidiana. Ero affascinato dall’idea di
creare il microcosmo di una piccola città del deserto in cui tutti si conoscono
e sanno tutto di tutti. Mi affascinava questa commedia umana che ho cercato di
dipingere come meglio ho potuto. E’ anche un romanzo sulle famiglie: la
famiglia è l’istituzione più paradossale, più misteriosa, più buffa del mondo,
l’istituzione più tragica del mondo. Se dovessi dire in una parola su che cosa
è la mia opera letteraria, direi che è sulle famiglie; se avessi due parole a
disposizione, direi che è sulle famiglie infelici. Questo romanzo è un pezzo di
musica da camera, un romanzo domestico.
Mi è parso che fosse anche un romanzo sulla necessità del compromesso…
Certo, è un libro sul
compromesso e sulla necessità di scendere a dei compromessi per restare vivi. I
giovani pensano che un compromesso sia opportunistico e disonesto. Ma nel mio
vocabolario il compromesso è sinonimo di vita, dove c’è vita c’è compromesso.
L’opposto del compromesso non è integrità e onestà, ma è fanatismo e morte. Il
compromesso per me è una filosofia, un modo di vita. Credo nel compromesso a
tutti i livelli, sociale e famigliare, e per ‘compromesso’ non intendo offrire
l’altra guancia, intendo cercare di incontrare l’altro a metà strada. Visto che
ho alle spalle 47 di matrimonio, so bene che cosa sia il compromesso. Questo è
un libro sul compromesso e sulle concessioni, oltre ad essere un romanzo
sull’amore e sulla morte, sulla solitudine e sulla desolazione.
Nel romanzo “Una storia di amore e di tenebra” diceva che ogni storia è
un’autobiografia e nessuna è una confessione: c’è qualcosa di autobiografico
anche in questo romanzo?
Sì, c’è, perché è un
romanzo su una città nel deserto e io abito nel deserto, perché è una storia
con dei protagonisti di mezza età e io sono di mezza età, sul cercare di fare
delle cose buone senza riuscirci sempre e io cerco sempre di farle e non sempre
ci riesco. Questa è la mia parte di autobiografia nel romanzo.
Ad un certo punto del romanzo Avraham Orvieto, il padre del ragazzo
morto, racconta una storia dello scimpanzé innamorato che deve poi essere
riportato nella foresta e abbandonato, una storia molto bella: è un regalo per
i lettori o c’è da leggere altro tra le righe di questa storia?
La storia della scimmia
innamorata è una metafora per lo stato di solitudine che pervade il romanzo, l’unica
maniera per sfuggire alla solitudine è l’amore, anche quando essere innamorato
significa disperazione. La scimmia non aveva scelta per realizzare il suo
amore, ma con metafore e contrasti questa struggente storia della scimmia
innamorata rappresenta la necessità dell’amore, come tutto perda significato
senza l’amore.
Noa dice una frase, “Dimenticare per perdonare è un insopportabile
cliché”: è d’accordo con lei?
Sì, non penso che per fare pace tra nemici
si debba dimenticare e perdonare. Si deve semplicemente fare la pace. Nel
vocabolario pacifista le parole pace-amore-compassione sono sinonimi. No, la
pace è pace e non necessariamente amore. Non sono d’accordo con lo slogan ‘Fate
l’amore, non fate la guerra’. Se mi trovo davanti a un palestinese, io direi,
‘fate la pace e non l’amore’. Non c’è bisogno di amare per essere in pace, non
è necessario che dei nemici si amino, che dimentichino e che perdonino. E’
necessario smettere di uccidere e di morire per vivere, anche se a denti
stretti. Quando parlo di compromesso, non parlo di nemici che si abbracciano.
Tra israeliani e palestinesi, ma anche tra uomini e donne, io mi aspetto una
coesistenza a denti stretti. Sfido un mio vecchio conterraneo, Gesù Cristo,
dicendo questo, ma è noto che in Israele non ci sono mai due israeliani
d’accordo.
Lo studente Immanuel dice che le parole sono trappole: è vero che le
parole sono trappole?
Possono esserlo, Immanuel
dice qualcosa che tutti sanno: le parole, non tutte e non sempre, possono
essere trappole.
Un nodo fondamentale del romanzo è il tema della famiglia, argomento di
cui si discute molto in Italia in questo momento. Pensa anche lei, come molti,
che nel mondo occidentale si stia andando verso la disgregazione della
famiglia?
No, penso che dobbiamo
allargare il significato del termine famiglia, che vi si debbano fare entrare
anche delle convivenze che una volta non rientravano nella concezione di
famiglia. Sapevamo che ‘famiglia’ era genitori e figli oppure anche fratelli e
sorelle, pur senza che ci fosse un legame erotico. Ma penso che anche due
uomini o due donne insieme possano formare una famiglia. Sì, credo veramente
che si debba allargare il termine per includere altri rapporti di due persone
che stanno insieme. Conosco una famiglia formata da una persona sola e da un
gatto: non voglio dire che lo Stato debba riconoscerli come famiglia, ma io non
ho problemi a riconoscere questo legame.
Il nome che lei ha scelto per sé, Oz, significa “forza”. Quanta forza
ci vuole per parlare apertamente, per dire ai governi quello che non vogliono
sentire?
Per carità, non vorrei
essere trasformato in un eroe come Solzhenicyn: non sono mai stato arrestato,
né perseguitato. Ricevo lettere folli, e-mail di minaccia di morte, ma non ho
mai dovuto fare sacrifici. La cosa più spiacevole era quando i miei figli erano
bambini e a scuola li chiamavano “i figli del traditore”. I miei vicini di casa
sono arrabbiati con me per le mie opinioni politiche ma Israele ha una società
tollerante e aperta, non merito certo una medaglia per eroismo.
A colloquio di recente con l’ex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami,
autore del libro “Palestina”, questi ha parlato della soluzione che prospetta
due stati in Israele e un ritorno ai confini del 1967: secondo lei l’opinione
pubblica israeliana è pronta per una soluzione di questo tipo? Shlomo Ben-Ami
diceva di sì.
Sono d’accordo con
Shlomo Ben-Ami e vi do buone notizie dal Medio Oriente- anche se questo è un
ossimoro, perché o ci sono buone notizie o c’è il Medio Oriente. La maggioranza
degli ebrei israeliani e degli arabi palestinesi sono pronti per i due stati,
pronti e non entusiasti, pronti e non felici, pronti come un paziente è pronto
per un’operazione chirurgica. I sondaggi dicono che la maggioranza degli
israeliani e dei palestinesi tollereranno la soluzione dei due stati. I leader
purtroppo non hanno la visione e la capacità di tradurre questo in realtà. E’
come se il paziente fosse pronto ma i medici non avessero il coraggio. Parliamo
di un paese piccolo come la
Sicilia- anche se dal rumore che fa parrebbe grande come la Cina- in cui ci sono due
nazioni, 5,5 milioni di israeliani che non hanno un altro posto in cui andare e
4 milioni di palestinesi che non hanno un altro posto in cui andare. Non sono
una famiglia unica pronta a vivere felice perché non sono una famiglia e non
sono felici, e allora la casa deve essere divisa in due appartamenti. Non ci
sono alternative, questo è quello che deve essere fatto e prima è meglio è.
Di recente lei ha detto che sarebbe pronto a combattere un’altra guerra
se si sentisse minacciato. La società israeliana percepisce la possibilità di
una guerra come difesa o ci sono ancora tendenze aggressive?
E’ impossibile
generalizzare, la società israeliana è molto frantumata e varia. Molti vedono
la guerra solo per difesa e per niente altro. Poi ci sono dei gruppi pronti
alla guerra per altri fini: i luoghi santi, le risorse, altra terra. E ci sono
diverse interpretazioni di autodifesa: dove finisce l’autodifesa? Personalmente
combatto come il diavolo se cercano di uccidere me e la mia famiglia o se
vogliono trasformarmi in uno schiavo. Ma non combatto per nessuna altra
ragione.
Letteratura come impegno, letteratura come evasione: la letteratura può
essere ancora un rifugio in un paese devastato dalla guerra?
Penso che in Israele la letteratura sia ancora entrambe le cose: leggi
per essere coinvolto e per essere distaccato. Gli israeliani leggono come
ossessionati, leggono per dissentire. Mi capita spesso di incontrare dei
tassisti che hanno letto un mio libro e iniziano a discutere con un mio
personaggio ed io dovrei essere la connessione tra l’uno e l’altro. Leggono
un’allegoria politica anche dove non c’è, è così e io non posso farci niente.
Una volta ha parlato delle voci che sente, dei suoi personaggi: come
nascono queste voci dentro di lei?
E’ vero, ogni mio romanzo
inizia con delle voci e non so da dove vengano perché i miei personaggi non
sono mai creati da modelli reali. Avevo un vicino che diceva che ogni volta che
passava davanti alla finestra del mio studio si ravviava i capelli, mettendosi
a tiro per entrare nel romanzo. Non so da dove vengano le voci.
Restano voci a
lungo, non sapevo nulla di Theo e Noa, però sentivo un uomo stanco del mondo e
una donna mercuriale e amante dei cambiamenti. Discutevo con loro, gli dicevo
‘andatevene da un altro scrittore’, ma insistevano a restare lì ed alla fine è
arrivata la loro fisicalità, e poi la città con i suoi pettegolezzi, la trama.
Un mio romanzo inizia sempre con le voci dei personaggi e la trama arriva molto
dopo.
grazie. Molto utile per un confronto con i pensieri che mi sono affiorati dopo la lettura del libro. Il più utile contributo trovato dopo una ricerca notturna in rete ...
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